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Buone feste!

Un altro anno sta per finire,
sono contento di averlo trascorso in parte con voi.
Quest'anno abbiamo parlato molto di pesci, del loro comportamento, del perchè non esiste un vero e proprio gruppo dei pesci, dell'uscita fuori dall'acqua dei vertebrati, della loro origine e del famoso sito di Chengjiang.
Nell'ultimo periodo ci siamo addentrati nel mondo degli agnati, grazie ad una simpatica intervista tra lamprede e missine, e abbiamo cominciato a conoscere i principali gruppi di agnati paleozoici.

Sono soddisfatto, sono riuscito a scrivere abbastanza post. Spero di aver soddisfatto anche voi.
Sperando di continuare su questa scia....vi auguro buone feste e un buon natale.


 Al prossimo anno,

Marco

P.S. Domani (24 dicembre), partirò verso Misciano di Montoro, provincia di Avellino, dove mi troverò per festeggiare come ogni anno il natale con i miei parenti.
Tornerò il 31, i post riprenderanno all'incirca dopo il 3 gennaio.

Recensione di "In Dino Veritas" by Marco Signore

Qualche tempo fa mi capitò di scambiare alcune mail con Marco signore, Paleontologo dei vertebrati (PhD all'Università di Bristol) nonchè autore di Scipionyx samniticus (Dal Sasso e Signore, 1998).
Per chi volesse sapere qualcosa di più su di lui, allego questo link

RSWitalia, la casa editrice del libro"In Dino Veritas", di cui io stesso sono uno degli autori, gli aveva chiesto se poteva leggere il libro e scrivere una piccola recensione. Qualche mese dopo mi arrivarono quelle che Marco Signore definì "due righe di presentazione del volume".
Non mi era mai stato dato l'ok dalla casa editrice per poterle pubblicare, ma oggi finalmente mi hanno avvisato che si può, quindi ve le posto qui.

Lascio dunque la parola allo stesso Marco Signore:

"C'è un momento nella vita di ogni paleontologo, indipendentemente dalla sua specializzazione, in cui compaiono i dinosauri. E tra i paleontologi mediatici c'è almeno un momento in cui si viene intervistati sui dinosauri, indipendentemente dalla propria specializzazione.
Questa approssimazione nel nostro paese è il frutto di una politica culturale fatta di visioni ristrette, razzismo e totale ignoranza, che tocca - sfortunatamente - tutti i livelli degli enti preposti alla preparazione culturale, dalla scuola all'università.
Quando vado in libreria, ormai mi sorprendo poco alla vista del reparto "scienze" devoluto quasi interamente a matematica e fisica, come le se scienze di campo fossero inesistenti; ma una parte di me continua a non rassegnarsi al fatto che tutti i libri sui dinosauri e sugli animali preistorici facciano parte dello scaffale "bambini".


Certo, la situazione accademica in Italia non è delle più incoraggianti in paleontologia: la divulgazione è quasi nulla, ed i "grandi esperti" si beano nelle loro discussioni tecniche, spesso considerando i fossili come null'altro che pezzi da analizzare statisticamente, dimentichi del fatto che quei "pezzi" erano parti di organismi che hanno vissuto, respirato, mangiato, insomma... esseri viventi.
Ma ogni tanto anche in Italia c'è qualche tentativo di tirare su il livello della divulgazione scientifica, e sono stato talmente fortunato da avere la possibilità di recensire uno di questi ben riusciti tentativi, dal titolo certamente strano, che strizza l'occhio ai giochi di parole tipici del mondo anglosassone: "In Dino Veritas".


Questo massiccio tomo, frutto delle fatiche di Marco Castiello, Marco Lampugnani, e Stefano Broccoli, ed edito dalla RSW Italia, è un libro sui dinosauri dal taglio moderno e, diciamocelo, con una missione: cercare di fornire informazioni in italiano quanto più complete possibile, su quelli che sono gli animali più citati e meno conosciuti della storia.


"In Dino Veritas" è un volume divulgativo scritto con un notevole rigore scientifico, e strutturato in due distinte parti. La prima riguarda la descrizione della paleontologia, del mondo dei dinosauri, ed anche sotto certi aspetti degli studiosi che se ne occupano, laddove la seconda, più corposa, è una lista dettagliata dei generi conosciuti di questi straordinari animali.
La prima parte del libro è un'eccellente introduzione allo strano mondo dei paleontologi. In essa sono spiegati in dettaglio e con parole chiare concetti familiari a chi studia il passato, ma pressoché sconosciuti al grande pubblico. Naturalmente la paleontologia non è una scienza facile - anzi, a mio parere è il più difficile tra i campi delle scienze naturali - e quindi già un grande merito va ascritto agli autori di "In Vino Veritas" per essere riusciti a spiegare in uno stile chiaro ma anche interessante, ed in poche pagine, l'oggetto di una vita di studio di decine di eccentrici studiosi. Inoltre, anche le parti in cui un linguaggio più complesso era quasi d'obbligo sono state rese chiare e leggibili, grazie alle spiegazioni dei termini.
Se mi venisse chiesto di trovare un difetto in questa prima parte, l'impresa mi risulterebbe difficile, ed anzi mi spingerei al punto di consigliare la lettura dei primi capitoli anche agli studenti universitari che si trovassero ad affrontare un esame di paleontologia (soprattutto per quanto riguarda i vertebrati fossili). Forse l'unico difetto minore, ma è un parere del tutto soggettivo, è l'eccessivo legame del testo alla scuola cladistica, un sistema di classificazione basato sulla sistematica e dalle premesse eccellenti ma dall'esecuzione spesso poco oggettiva. Va tuttavia detto che la cladistica è poco nota in Italia, ma nel resto del mondo è da decenni ormai la base della sistematica degli organismi sia viventi che fossili, e quindi in questo il libro ha un taglio internazionale, che talvolta manca persino alle pubblicazioni scientifiche "made in Italy". Insomma, più che un difetto, io lo definirei un pregio che non incontra del tutto i miei gusti, ed anche una necessità che rende "In Dino Veritas" un libro moderno e completo.


Ma la seconda parte è quella in cui questo colossale lavoro davvero da' il meglio: una lista di tutti i generi noti finora di dinosauri, completa di distribuzioni geografiche, sagome degli animali, classificazioni, e descrizione. Molti dei dinosauri citati in questo libro erano finora "accessibili" solo tramite pubblicazioni scientifiche specifiche e non disponibili per il grande pubblico, e quindi è forse qui il più grande merito di questo libro: dare una panoramica completa della conoscenza dei dinosauri, che non si limita agli animali più noti (che so, Tyrannosaurus, Stegosaurus e così via), ma che va ad illustrare anche i nuovissimi ritrovamenti che tutt'ora stanno cambiando la storia della paleontologia - e con essa la nostra stessa visione del mondo del passato.
Gli scavi in Argentina, gli spettacolari ritrovamenti cinesi, e persino animali importantissimi eppure dimenticati come il nostrano Scipionyx (che ho avuto la fortuna di studiare di persona) vengono riportati con la massima fedeltà possibile. Naturalmente nel compilare liste e schede innumerevoli la possibilità di errori di stampa è sempre in agguato come un mostro che si nasconde negli angoli d'ombra delle pagine, ma gli autori hanno prontamente messo a disposizione un foglio di errata in modo da poter eliminare gli effetti fastidiosi di errori di scrittura o di editing.


In conclusione a questa brevissima introduzione, che non restituisce nemmeno lontanamente a chi legge la notevole mole di lavoro che sta alle spalle della realizzazione di "In Dino Veritas", non posso che esprimere le mie congratulazioni sia agli autori di questo notevole volume che all'editore che in loro ha creduto. Penso che, da paleontologo e scrittore, se da piccolo avessi avuto la possibilità di avere un libro così completo, non ci avrei pensato due volte ad averne una copia. Quindi non posso che consigliare vivamente la lettura di "In Dino Veritas", sperando che possa essere solo l'inizio di una sin troppo necessaria opera di divulgazione scientifica in un paese come il nostro in cui la paleontologia è una scienza sconosciuta o peggio ritenuta solo un non volersi staccare dall'infanzia.


Marco Signore,
Napoli, settembre 2011 "

Ringrazio Marco Signore per le belle (e inattese) parole, sono uno stimolo ad impegnarmi ancora di più.

Su al Nord: gli astraspidi

L'Ordoviciano fu un periodo abbastanza proficuo per gli agnati, in particolare per gli pteraspidomorphi. Abbiamo visto lo scorso post come nei mari dell'emisfero australe vivessero svariate specie di arandaspidi, con la loro bizzarra anatomia.
Oggi ci spostiamo invece nell'emisfero boreale, più precisamente in Nord America.,
Qui, nell'Ordoviciano Superiore (circa 450 milioni di anni fa), spopolava un piccolo gruppo di pteraspidomorphi, piuttosto diffuso e caratterizzato da una peculiare forma dello scudo dorsale e delle scaglie. A questo particolare gruppo di animali è stato dato il nome di Astraspida.

All'interno di questo esso si trova un solo genere, Astraspis, che comprende la specie A. desiderata e A. splendens, rinvenute con abbondanza in Nord America, in particolare negli U.S.A. (Colorado, Arizona, Oklahoma, Wyoming) e in Canada (Quebec). Molto famosi sono i resti di questo genere rinvenuti nella formazione Harding Sandstone, in Colorado.
Proprio per questo motivo, Astraspida viene considerato un clade endemico della parte Nord del continente americano.
Disegno di Astraspis. Da http://mygeologypage.ucdavis.edu


Gli agnati del Sud: gli arandaspidi

Nello scorso post abbiamo visto le caratteristiche generale di quel particolare gruppo di vertebrati senza mascelle chiamato Pteraspidomorphi.
Oggi faremo un ulteriore passo in avanti, andando a incontrare uno dei cladi interno a questo gruppo, i bizzarri arandaspidi.

Arandaspida è un piccolo gruppo di pteraspidomorphi, tipici dell'emisfero australe dell'Ordoviciano, caratterizzati da una particolare conformazione degli occhi, della coda e da una serie di piastre dermali poste lungo i due piastroni che compongono la testa.
Al suo interno troviamo solo quattro taxa: il simpaticissimo Sacabambaspis, Porophoraspis, Arandaspis (il genere che da il nome al gruppo) e Andinaspis (prima della correzione del post avevo inserito anche Pircanchaspis, ma l'ho tolto perchè la sua posizione filogenetica è troppo dubbia).
Per quanto riguarda le specie, al genere Sacabambaspis sono riferibili almeno due specie (S. janvieri e Sacabambaspis sp.), due ad Arandaspis (A. prionotolepis e A. sp.), due a Porophoraspis (P. crenulata e P. sp.) e una per Andinaspis (A. suarezorum).

Arandaspis prionotolepis


Un tempo si pensava che il gruppo degli arandaspidi fosse ristretto solo all’emisfero australe, visto che i fossili di tale gruppo erano stati rinvenuti in Bolivia, Argentina e Australia. Tuttavia recentemente (Sansom et al., 2009) sono stati recuperati alcuni esemplari di Sacabambaspis anche in Oman (che comunque rappresenta il margine arabo del paleocontinente di Gondwana).
In particolare, sono stati rinvenuti fossili di Sacabambaspis in Bolivia, Australia, Argentina e Oman, di Arandaspis e Porophorasis in Australia e di Andinaspis in Bolivia, tutti provenienti da depositi marini risalenti all’Ordoviciano. Gli arandaspidi rappresentano dunque un taxon endemico del Gondwana.


La vita al tempo degli pteraspidomorphi

Eccomi, sono ufficialmente tornato.
Scusate se ci ho messo tanto ma dovevo finire il mio lavoro su alcuni pesci fossili italici (di cui magari vi parlerò) e avevo poco tempo. Ora posso finalmente riprendere con il blog a pieno regime.
Ci eravamo lasciati con l’obbiettivo di ripercorrere la storia degli agnati, e da qui ripartiremo.

In realtà, come detto, non esiste un vero e proprio clade Agnata monofiletico, poiché non esiste un insieme di caratteristiche che possano essere utilizzate per legare questi taxa in un unico gruppo con origine comune. Vi sono spesso differenze molto evidenti tra le varie specie, tale che oggi Agnata non ha valenza scientifica, ma è semplicemente usato per comodità, per includere tutti i vertebrati che non hanno mascelle.
All’interno di Agnatha, spesso viene identificato il gruppo degli ostracodermi, in cui sono inclusi una serie di taxa paleozoici dotati di un corpo corazzato e privo di mascelle. In realtà spesso i vari “ostracodermi” hanno ben poco a che fare tra di loro e la situazione reale è che essi si distribuiscono in varie linee laterali lungo il ramo che porta dall’origine dei vertebrati agli gnathostomi.
Oggi incontreremo il primo gruppo di questi leggendari ostracodermi, un gruppo monofiletico abbastanza grande, che contiene al suo interno altri gruppi (mentre, come vedremo, spesso incontreremo gruppi formati da un  numero esiguo di taxa) e che prende il nome di Pteraspidomorphi.


Agnato è bello!

Quando si guarda alla vita sulla Terra nel passato, spesso ci si trova davanti a forme assolutamente bizzarre e peculiari. A volta, alcune di queste forme non hanno un corrispettivo attuale, presentano pochissime similitudini con gli animali che conosciamo oggi e, per tali ragioni, ci paiono quasi fuori contesto, come se fossero aberranti esperimenti dell’evoluzione.
Il gruppo di animali di cui inizierò a parlare oggi, rientra sicuramente in questa categoria.

Nella nostra simpatica intervista a lamprede e missine abbiamo conosciuto gli unici due gruppi di vertebrati attuali che non presentano una bocca, e che sembrano perciò così diversi quindi da tutti gli altri vertebrati viventi.
Questa caratteristica è così distintiva che, guardando al presente, tutti gli altri vertebrati sono raggruppati in un gruppo monofiletico Gnathostomata, caratterizzato appunto dalla presenza di una bocca vera e propria, formata da mascella e mandibola. Se guardassimo solo i taxa attuali, considereremmo quindi lamprede e missine come “esperimenti” della natura, come se inizialmente avesse provato questa soluzione (una testa con una bocca circolare, senza mandibole) e poi, accortasi della relativa scomodità di questa via, avesse virato invece sulle mandibole, favorendo poi la biodiversità “mandibolata” e relegando lamprede e missine a casi isolati.
E invece, se andiamo nel record fossile, ci accorgiamo che esiste tutta una serie di “pesci” senza mandibole (i così detti Agnati, dal greco gnathos, per mandibole, e con alfa privativa davanti) fossili, alcuni con delle forme assolutamente strane, che durante buona parte del Paleozoico medio spopolavano ed erano organismi abbastanza di successo. Non più un esperimento andato a male quindi, ma una vera e propria radiazione adattativa.

Circa 400 milioni di anni fa, nel Devoniano, la situazione era completamente differente rispetto ad oggi: vi erano presenti numerose specie di agnati, delle più disparate forme, e le proporzioni tra pesci con e senza mascelle erano molto diverse rispetto ad oggi, con gli agnati che costituivano molto più della metà dei pesci esistenti, mentre gli gnathostomi erano ancora relativamente pochi.

Buona parte di essi possedevano, oltre ad una bocca senza mascelle, anche una serie di piastre dermiche molto dure, che ricoprivano il loro scheletro, tale da formare una sorta di corazza dermica. Fino a qualche tempo fa, tutte queste forme venivano riunite nel grande gruppo degli Ostracodermi, proprio sulla base di questa caratteristica. Attualmente però , tale gruppo è considerato parafiletico, soprattutto in base alle divergenze morfologiche dei loro rivestimenti dermici e ad altre caratteristiche, soprattutto craniali.

Nonostante un mondo dominato da pesci senza mandibole, corazzati, spesso lenti e in vari casi senza pinne, dove la nutrizione era attuata soprattutto per filtrazione o per abbuffata di detriti, possa sembrare assai poco movimentato e interessante,  gli agnati furono i pesci più abbondanti della Terra per quasi cento milioni di anni, sia in mare che in acque dolci, essendo comparsi all’incirca 480 milioni di anni fa, nell’Ordoviciano inferiore, ed essendo durati fino alla fine del Devoniano, circa 370 milioni di anni fa.

E in tutto questo periodo, svilupparono una serie di morfologie veramente straordinarie, un risultato che non potrà non affascinarvi, così come ha affascianto me (e che ora occupa buona parte dei miei studi paleontologici).

In questa serie di post, ci addentreremo dunque nel magico mondo degli ostracodermi.

Coming Soon: I leggendari ostracodermi!

Immaginatevi animali corazzati, senza bocca, spesso muniti di spine e aculei, con una morfologia che sembra uscita da un film sugli alieni.

Bè, queste creature esistono. E non sono alieni né bizzarrie fantascientifiche. Sto parlando degli Ostracordermi, un gruppo (ahi noi, parafiletico) di simpatici e peculiarissimi pesci paleozoici.

I prossimi post saranno dedicati a loro, in una speciale mini serie.

Tutto questo però, almeno dopo martedì (dopo il mio rientro dal Belgio).

Intanto, gustiamoci la ricostruzione di uno dei tanti ostracodermi, Sanchaspis



Intervista con... Missine e Lamprede


Da qualche post stiamo ripercorrendo le fasi che hanno portato gli animali ad acquisire i caratteri tipici dei vertebrati. Nel precedente post, abbiamo osservato da vicino il tessuto osseo, le sue funzioni, i suoi “affini” e abbiamo provato a ipotizzarne l’origine. 
Oggi, continuando il nostro cammino lungo l’evoluzione dei vertebrati, ho intervistato per voi una lampreda e una missina, che ci spiegheranno le loro caratteristiche principali, la loro storia, il loro significato evolutivo. Spero di avergli posto le domande giuste… 

B (blogger): Buon pomeriggio ad entrambe, è un onore avervi qui. Potete presentarvi ai nostri eventuali lettori?

M (missina): Ciao a tutti, il mio nome scientifico è Myxine glutinosa e rappresento qui un po’ tutto il mio gruppo, quello delle missine.
L (lampreda): Ciao a tutti quanti, mi chiamo Petromyzon marinus, più comunemente conosciuta come lampreda di mare, e sono qui a nome di tutte le mie compagne lamprede per farvi conoscere un po’ il nostro mondo. 

B: Dove vivete? 
M: Io sono distribuita più o meno in tutto l’Oceano Atlantico, ma il mio gruppo è presente anche negli altri mari del nostro pianeta. Amiamo acque fredde e siamo molto sensibili ai cambi di salinità, visto che non abbiamo un sistema di osmoregolazione. Siamo animali esclusivamente marini, ci piace vivere vicino al fondale, spesso infossati nel sedimento. Siamo particolarmente golose di invertebrati e di carne di animali in decomposizione. A discapito di quanto si dice in giro, non siamo parassiti, visto che, specialmente di sera, ci dilettiamo con passione nella caccia attiva alle nostre prede (piccoli invertebrati).

L: Noi lamprede siamo animali piuttosto diffusi sia in acqua dolce che in acqua salata. La maggior parte di noi vive nell’emisfero nord, con solo due generi che vivono sotto l’equatore. Siamo animali tendenzialmente di acqua dolce, dove ci riproduciamo e passiamo gran parte della nostra vita. Chi di noi vive in mare da adulto, vi migra una volta raggiunta l’età matura e poi ritorna nelle acque dolci quando si deve riprodurre. Io vivo nell’Oceano atlantico, nel Mar Mediterraneo e sono presente anche in alcuni dei grandi laghi nordamericani. Il nostro cibo preferito è il sangue dei pesci, che riusciamo a succhiare tramite la nostra particolarissima bocca. Non è però del tutto vero che siamo solo parassiti, visto che, se ci capita l’occasione, prediamo anche piccoli invertebrati acquatici.


Anatolepis e l’origine del tessuto osseo

Qualche post fa abbiamo conosciuto i primi vertebrati fossili noti, Myllokunmingia e affini, e ne abbiamo assaporato con gusto le caratteristiche distintive e la loro importanza all’interno dello studio sull’origine dei primi vertebrati. Tuttavia, non abbiamo ancora incontrato quello che comunemente caratterizza i vertebrati rispetto agli altri animali, ossia il tessuto osseo. 
Oggi, senza addentrarmi troppo nello specifico, cercherò di mostrarvi com’è fatto un osso, da quali sostanze è composto e cosa si pensa della sua origine.

In generale, l’osso è un tessuto composto da fibre di collagene, (una particolare proteina) sulle quali vengono a depositarsi sottili cristalli, solitamente di forma prismatica –esagonale, di un minerale chiamato idrossiapatite (composto da fosfato di calcio). A livello funzionale, l’osso costituisce lo scheletro e ha funzione di sostegno e protezione, sia di organi che dell’intero corpo, a seconda della sua posizione. Possiamo perciò distinguere uno scheletro interno, endoscheletro, come il nostro o quello di moltissimi vertebrati, e uno scheletro esterno, come ad esempio il carapace delle tartarughe. 
L’osso, come saprà bene chi si è rotto un braccio o una gamba almeno una volta (ad esempio il sottoscritto), è un tessuto vivo, in continua sostituzione, grazie a particolari vasi sanguigni, insiti in canali, che aiutano il tessuto osseo a portare all’interno o all’esterno della struttura fosfato di calcio in soluzione. Quando vi rompete un osso, questi canali, che servono anche a portare il sangue, fanno arrivare all’interno dell’osso il materiale necessario per ricostruire la zona lesa dal trauma. 
Inoltre, le ossa fungono da deposito di calcio che, quando esso è carente sotto forma di ione nel sangue, viene richiamato da questo tessuto e rimesso in circolo. Insomma, anche se sembra un tessuto relativamente statico e inerte, anche l’osso nasce, vive, cresce e muore. 
A proposito della nascita, essa è regolata da particolari cellule, gli osteoblasti, ricchi di organuli per la produzione di proteine che, una volta secreta la matrice che compone le ossa, rimangono all’interno di questa in quiescenza (in questo stadio prendono il nome di osteociti), mentre vengono riattivati se l’osso subisce danno (e sono dunque pronti a ripetere la secrezione).

Gli osteoblasti danno origine anche ad un altro tipo di tessuto mineralizzato, per certi aspetti molto simile alle ossa: la dentina. Come si intuisce dal nome, la dentina è uno dei tessuti che costituiscono i denti dei vertebrati, insieme allo smalto. La sua composizione è molto simile a quella delle ossa, ma la sua struttura invece differisce soprattutto per una diversa disposizione e tipologia di canali interni. Essi sono generalmente collegati con la cavità della polpa (che si trova sotto la dentina) e, sopra, con lo smalto, un altro tipo di tessuto mineralizzato ricco di cristalli di apatite ma meno di collagene e proteine rispetto agli altri. Attualmente la dentina si trova solamente nei denti dei vertebrati e in due particolari tipi di scaglie dei “pesci” (scaglie placoidi e ganoidi), tuttavia, come vedremo, essa sarà la protagonista della nostra storia sull’origine dell’osso.

Un ulteriore tessuto è la cartilagine, presente anche nel nostro corpo e, anche al contatto (toccate la punta del vostro naso, composta di cartilagine, per verificarlo), molto diversa rispetto al tessuto osseo. Essa è composto principalmente da collagene, non presenta idrossiapatite, che è sostituita da grosse molecole di zucchero, non ha al suo interno i tipici canalicoli delle ossa ed è molto elastica. La cartilagine è presente anche nel nostro corpo e costituisce gran parte dello scheletro interno dei “pesci” del gruppo dei Chondrichthyes (squali, razze, mante, detti appunto pesci cartilaginei). 
Quando abbiamo parlato di Millokunmingia e dei suoi affini, abbiamo visto che alcuni erano dotati di strane strutture simili a vertebre, formate di cartilagine. Dunque, è possibile che la cartilagine sia apparsa come primo materiale di sostegno del corpo dei vertebrati. 
E il tessuto osseo?
Forse, la soluzione a questo “mistero” è stata fornita dal misterioso Anatolepis (Brockelie & Fortey, 1976). I reperti riferiti a questo taxon, rinvenuti in giacimenti del Cambriano Superiore di Wyoming (U.S.A.) e Groenlandia , non sono molto ben conservati, tant’è che ancora oggi ci sono dubbi sul suo effettivo stato di vertebrato basale (anche se alcune recenti analisi, ad esempio Sansom et al., 2010 confermano la sua posizione tra i vertebrati basali). Tuttavia, quello che interessa veramente è che questo taxon mostra un esoscheletro formato da minerali di idrossiapatite, una caratteristica non presente in nessun cordato non vertebrato, in nessun vertebrato più basale di Anatolepis e mai rinvenuta in fossili più recenti del Cambriano Superiore!
Ma la cosa più sorprendente è che la struttura dell’esoscheletro di Anatolepis somiglia maggiormente a quella dei nostri denti che delle nostre ossa. L’armatura dermica di Anatolepis, costituita da una serie di piccoli tubercoli, è come se fosse una schiera di denti veri e propri, costituiti da dentina e cavità della polpa. Insomma, è come se i primi vertebrati avessero originato per proteggersi prima un rivestimento “di denti” e poi uno scheletro vero e proprio. Lo stesso tipo di struttura dell’armatura dermica di Anatolepis la troviamo anche negli squali d’oggi, le cui scaglie sono composte in prevalenza da dentina, ma comunque posseggono una struttura molto più complessa. 

Frammento di armatura dermica di Anatolepis. I tubercoli (quelle sferule in rilievo) possiedono la stessa composizione dei denti dei vertebrati. In pratica, è come se Anatolepis avesse un rivestimento cutaneo formato da una serie di piccolissimi denti.

Con Anatolepis gli scienziati hanno potuto avere un idea dei primi animali dotati di apatite, ma ricercando invece l’origine del tessuto osseo vero e proprio, che informazioni abbiamo?

I vertebrati più basali  attuali sono lamprede e missine, due gruppi che abbiamo incontrato qualche post fa. Entrambi questi due gruppi non presentano tessuto mineralizzato, ma un tessuto cartilagineo particolare, molto povero di collagene.
Altri (possibili) vertebrali basali, come i conodonti, posseggono invece tessuto mineralizzato.
Quindi?

Un’ipotesi è che il tessuto osseo si sia formato dall’incontro tra un endoscheletro formato da cartilagine ed un esoscheletro formato da apatite, come quello di Anatolepis.
In questo modo, per induzione, si sarebbe originato all'interno del corpo dei vertebrati uno scheletro formato da collagene e cristalli di idrossiapatite.
Anche oggi, in molti vertebrati (ad esempio in tutti i tetrapodi) alcune ossa si formano per endocondrosi, ossia per ossificazione di tessuto cartilagineo, tramite l’impregnazione di matrice cartilaginea con cristalli di apatite.
Non è improbabile dunque che anche le ossa dei primi vertebrati si siano formati così, per invasione dei cristalli di apatite dallo scheletro esterno, formato da dentina.

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Bibliografia:
- Benton, M. J. (2005), Vertebrate Paleontology, 3rd ed. Blackwell Science Ltd
- Brockelie T. and Fortey. R. A., 1976, An early Ordovician vertebrate, Nature 260: 36 - 38
- R.S. Sansom et al., 2010, Taphonomy and Affinity of an Enigmatic Silurian Vertebrate, Jamoytius kernwoodi (White), Palaeontology 53 (6): 1393 - 1409

Non chiamateli Pesci!

A me non piacciono le categorizzazioni.
Sia nell’ambito delle scienze naturali, come può esserlo in parte la sistematica linneana, sia nella vita, nell’arte, nella musica, etc. Categorizzare spesso vuol dire prendere una linea generale di riferimento, che secondo il nostro principio descrive in maniera univoca una particolare qualità, e adattarla ad una serie di cose che, sempre secondo la nostra linea di riferimento, apparterranno dunque alla nostra categoria.
Benché indubbiamente la categorizzazione, lo smistamento in comparti ben distinti e definiti, sia utile e necessaria in alcuni campi, spesso questo modo di vedere le cose ha portato ad una percezione non esattamente corretta, ad una generalizzazioni superficiale e troppo dettata dalla comodità che non dalla vera essenza delle cose.

Oggi vorrei parlarvi della “categoria” che io reputo più fuorviante in assoluto (all’interno del mondo animale) e che, da qualche tempo a questa parte, sto cercando di abbattere nell’ideologia delle persone che frequento.
Tale categoria ha il comunissimo nome di “pesci”.

Con questo termine vengono definiti solitamente tutti i vertebrati dotati di branchie, pinne, idrodinamicità, buona capacità di nuotare, scaglie, assenza di arti e varie caratteristiche, che, può o meno giustamente, vengono considerate così particolari da poter essere attribuite a questo gruppo leggendario.
Tralasciando la questione che oggi, nel linguaggio comune, come ad esempio nella ristorazione, viene chiamato “pesce” anche ciò che pesce non è, come gamberetti (che sono crostacei), cozze (che sono molluschi bivalvi) e seppie (molluschi cephalopodi), la situazione è meno complessa di quanto sembri.

A livello evolutivo, il gruppo dei “pesci” non ha significato, poiché esso rappresenta un raggruppamento artefatto dall’uomo e non naturale, in quando non esiste un gruppo monofiletico che racchiuda tutto quello che oggi noi chiamiamo pesce. O meglio, ci sarebbe, ma non è quello che viene solitamente inteso.
Per capire meglio, prendiamo un albero filogenetico dei vertebrati, che punti in particolare a far vedere la biodiversità dei pesci (che, per altro, coprono almeno il 50% di tutte le specie di vertebrati attualmente esistenti).



Come potete vedere visivamente, la situazione all’interno di quello che è considerato “pesce”, che io ho ripassato in rosso, è molto complicata. Non solo il gruppo in questione è parafiletico, perché “ad un certo punto si interrompe”, per dirlo in maniera semplice, ossia non include tutti i discendenti dell’antenato comune al gruppo (segnato con il pallino verde), ma inoltre i vari sottogruppi al suo interno non sono così omogeneamente imparentati tra di loro. Ad esempio, le lamprede o le missine (pesci agnati, ossia senza mascelle, non presenti nel grafico ma considerati a tutti gli effetti pesci, tale che il nome inglese per missina è hagfish - fish=pesce -), dal punto di vista evolutivo sono estremamente lontane dai dipnoi o dai tonno o dallo storione. Oppure, gli squali e le razze, che vengono considerati pesci al pari di salmoni, tinche o sogliole, nonostante abbiano avuto un' evoluzione completamente a se stante, pur avendo (siamo tutti cugini!)  un antenato in comune con salmoni & Co.

I pesci dunque non esistono? No, o meglio, non come li intendiamo noi.
Se volessimo per forza di cose instaurare un gruppo dei pesci che rispetti ciò che oggi viene considerato tale, dovremmo inserire tutte le specie che hanno un antenato comune con i pesci cartilaginei, con le lamprede, con i tonni e con gli storioni. Volendo dare grado monofiletico a Pisces, il risultato sarebbe che tutti i Vertebrati sarebbero in realtà pesci!  E’ una soluzione, ma una soluzione che comunque risulterebbe fuorviante, perché non si sarebbe fatto altro che includere gruppi ancora più diversi tra di loro in una categoria standard.

La soluzione dunque è un’altra.
Da un punto di vista evolutivo, è sbagliato raggruppare tutti questi animali in un unico grande gruppo (potremmo dire in una grande insalata mista) solo perchè hanno, apparentemente, caratteristiche così simili tra loro e così diverse dagli altri vertebrati (pinne, branchie, scaglie, silhouette). Ed è anche abbastanza fuorviante perché porta a pensare ad un evoluzione comune, ad una parentela stretta che in realtà non è così stretta.
La realtà è che tra l’origine dei vertebrati e l’origine dei tetrapodi (che abbiamo visto quiqui e qui), è avvenuta l’evoluzione di un vastissimo numero di gruppi, non così simili da poterli chiamare banalmente pesci. Di alcuni, conosciamo solo taxa fossili tale che possiamo solo immaginare come fossero in vita. Troppo poco per poterli etichettare come i soliti pesci.

I “pesci” comprendono un'immensa diversità di specie, che hanno sviluppato una serie di variegati adattamenti nel corso della loro lunghissima storia evolutiva, che dura da circa 530 milioni di anni, seguendo spesso percorsi imprevedibili e ben lontani gli uni dagli altri.
Quindi, per favore, non chiamateli pesci.

I tesori di Chengjiang (again!) e l'origine dei vertebrati

Nell'ultimo posto abbiamo incontrato gli incredibili chordati basali della località cinese di Chengjiang.
Ebbene, anche oggi dobbiamo nuovamente parlare di questo straordinario sito, che dal momento della sua scoperta ha rappresentato qualcosa di veramente importante per quanto riguarda la paleontologia e la conoscenza dell’evoluzione e della storia della vita sulla Terra.
Se dovessimo esaminare la filogenesi dei vertebrati senza tener conto degli esemplari fossili, giungeremmo alla conclusione che i più primitivi vertebrati odierni sono rappresentati da lamprede e missine, i così detti Agnati o “pesci senza mascelle”.
Entrambi questi gruppi di “pesci” non possiedono una bocca formata da mascelle, ma semplicemente da un apertura circolare uniforme, dotata di dentelli. Le missine, inoltre,  non possiedono neanche un vero e proprio scheletro, dal momento che solo nel loro cranio è presente una struttura scheletrica formata da cartilagine. Nelle lamprede invece, vi è un vero e proprio scheletro, formato da cartilagine.
Una lampreda (in alto) e una missina (in basso)
Missine e lamprede possiedono una conformazione veramente diversa rispetto agli altri pesci, tale che alcuni studiosi hanno ipotizzato che essi possano rappresentare un gruppo a se stante rispetto ai Vertebrata.
Tuttavia, oggi è indiscusso che essi rappresentano, tra gli animali viventi, uno dei gruppi più basali all'interno di Vertebrata (MA leggere qui!).
Per scoprire effettivamente quali relazioni intercorrono tra i vertebrati e per indagare sulla loro origine però, dobbiamo esaminare tutti i taxa noti, indipendentemente dal tempo e in funzione della comparazione dei caratteri.
Dunque è necessario fare un tuffo nel passato e vedere che informazioni possediamo grazie all’attuale record fossile.

I tesori di Chengjiang e l'origine della corda

Nello scorso post abbiamo conosciuto ascidie e anfiossi, i più famosi rappresentati di  Urochordata e Cephalochordata.  Questi due gruppi rappresentano i più stretti parenti dei vertebrati, di cui stiamo cercando di ripercorrere la storia evolutiva.
Come ho detto l’altra volta, è fondamentale conoscere i rapporti filogenetici tra Vertebrata e i suoi gruppi affini, proprio per poter tentare di ricostruire come doveva essere il primo vertebrato.
Le relazioni tra Urochordata, Cephalochordata e Vertebrata sono un argomento che per lungo tempo ha infuocato le discussioni tra biologi molecolari ed evoluzionisti. Molti studi sono stati proposti nel corso degli anni, sia su basi morfologiche (ossia, studiando i tre gruppi attraverso le caratteristiche morfologiche che condividono) sia su basi molecolari (analizzando le loro somiglianze genetiche). Attualmente recenti studi (Delsuc et al., 2006 e Delsuc et al., 2008), basati sia su analisi molecolare che morfologiche e approvati dalla maggioranza degli studiosi, affermano che Urochordata rappresenta il gruppo più vicino a Vertebrata, con Cephalochordata posto in posizione più basale.
Diciamo quindi che noi siamo più parenti delle ascidie che non dell'anfiosso.

Quindi, per cercare le caratteristiche che il primo (ideale) vertebrato doveva avere, dobbiamo guardare alle caratteristiche delle larve di ascidia e dell'anfiosso? Forse, ma non è quello di cui parlerò oggi.
Oggi, faremo un ulteriore passo indietro. Indietro fino a cercare di far luce sull’origine dei chordati.
Appurato quali sono i chordati più primitivi attuali, ossia le ascidie, andiamo a vedere quali informazioni possono essere ricavati dallo studio del record fossile. 

Mia cugina è un'ascidia!

Con questo post inizio un lungo (e spero continuativo) cammino che ripercorrerà l’evoluzione dei primi vertebrati, con un occhio di riguardo soprattutto al record fossile. Spero di essere chiaro e comprensibile (la base della divulgazione). Se non dovessi esserlo, sgridatemi.
Partiamo dunque.
I vertebrati sono tutti quegli animali che sono dotati di uno scheletro interno, in molti taxa osseo (come il nostro), in altri composto in larga parte da cartilagine, come negli squali. Attualmente i vertebrati sono tra gli animali più conosciuti, e anche nel mondo paleontologico sono un gruppo che ha riscosso grande successo, così che sono state studiate molte specie e si è potuto ricostruire la storia evolutiva di molti gruppi.
Tuttavia, ciò che sappiamo sulla loro origine è ancora troppo poco per avere un quadro completo.

Prima di prendere in considerazione l’origine dei vertebrati, dobbiamo però fare un discorso preliminare su quelli che oggi sono i più prossimi parenti dei vertebrati. Il gruppo dei vertebrati è incluso in un gruppo più grande, Chordata, attualmente rappresentato dai vertebrati, appunto, e da due bizzarri gruppi di animali, Cephalochordata e Urochordata, di cui fanno parte rispettivamente il famoso anfiosso e le simpatiche ascidie.
La caratteristica principale di Chordata è il possesso di una notocorda, una struttura rigida, formata da un rivestimento esterno di collagene che ricopre una specie di tubetto fibroso di tessuto connettivo, che ha la funzione di rendere rigido, ma allo stesso tempo flessibile, il corpo dell’animale che ne è dotato. Entrambi i tre gruppi di Chordata sono dotati di questa struttura, nonostante non sempre sia così evidente.

Anche le PaleoStorie vanno in vacanza...(coming soon autunnale)

Paleostorie sulla spiaggia!
  Cari eventuali lettori,

devo annunciarvi che domani partirò per le vacanze e quindi molto probabilmente non riuscirò a postare niente fino al mio ritorno (28 agosto). Durante le vacanze però, preparerò alcuni post per Settembre, in modo da ripartire alla grande nel prossimo autunno 2011.

In particolare, posso già anticiparvi che da Settembre comincerò una serie di post sull'origine dei vertebrati e sulla loro storia filogenetica. Spero che, belli riposati, ci sarete anche voi per ripercorrere insieme queste paleostorie.

Ci vediamo dunque a settembre.

Buona Estate e buone Paleovacanze (godetevi la natura, mi raccomando!).

Marco


P.S. Non so per quale arcano motivo, ma il sistema di blogger mantiene l'angolo "Commenti recenti" vuoto, non aggiorna quelli nuovi nè mostra quelli vecchi. Spero che risolveranno il problema al più presto. In ogni caso, non esitate, se volete, a commentare. Credo che avrò comunque i mezzi per rispondervi anche in vacanza.

Piante neglette

Questo post non è una paleo storia, ma semplicemente una riflessione personale. 
Quando frequentavo i corsi di Scienze Naturali mi trovavo a condividere aule e lezioni con una gran quantità di persone appassionate di questo campo. Tuttavia, mi dispiaceva vedere come quasi tutti fossero indirizzati ad un futuro nella biologia marina, nell’etologia o nella salvaguardia della fauna. Non che queste cose fossero malvagie, anzi, ma il problema era un altro. 
Mi chiedevo come mai a nessuno venisse in mente di fare il botanico o la botanica, o di studiare la fitosociologia. Insomma, le piante erano considerate come qualcosa di poco interessante, o al massimo belle ma difficili da studiare e con poco futuro. Devo ammettere che anche io ho sempre avuto una certa indifferenza per il mondo delle piante, tant’è che l’esame di botanica sistematica è stato una barriera relativamente difficile da superare.
Ultimamente però, sto rivedendo le mie prospettive.

Negli ultimi due anni ho avuto la fortuna di partecipare a due scavi paleontologici in Spagna, sempre nella stessa località, in cerca di ossa di dinosauro in livelli del tardo Maastrichtiano (ultimo periodo del Cretaceo). In particolare, io e altri prodi cercatori, sotto la supervisione del mentore Fabio Dalla Vecchia, cercavamo in un sito particolare dove sapevamo esserci delle ossa ma che fino a quel momento non aveva regalato grandi gioie. O meglio, così veniva detto.
In realtà, in due anni di scavo abbiamo trovato un quantitativo di fossili molto buono, da ossa di hadrosauro a denti di theropode, vertebre di coccodrillo e altri resti di vertebrati, come denti e scaglie di pesce.
Ma quello che mi ha colpito di più, è stata la grandissima quantità di resti vegetali ritrovati. Praticamente scavavamo seduti su interi strati di foglie, semi, tronchi fossili.
Bello vero?
Eppure, i resti vegetali venivano considerati spazzatura. Le istruzioni erano di buttare via tutto, perché non c’era posto, perché poco interessante e perché si volevano solo le ossa.
Una storia molto triste.
Perché le piante vengono sempre considerate in secondo piano, sia che si parli degli interessi di studentelli aspiranti naturalisti alle prime armi, sia che si tratti di importanti scavi paleontologici?

Le piante sono molto importanti, costituiscono il polmone verde della Terra, occupano larga parte della biodiversità attuale e presumibilmente anche estinta, hanno riempito l’aria primordiale di ossigeno, promuovendo l’esplosione della vita, e, non dimentichiamocelo, forniscono cibo a molto più della metà degli animali esistenti.
Anche a livello paleontologico, le piante fossili costituiscono una risorsa fondamentale per ricostruire gli ambienti del passato, contestualizzare i ritrovamenti degli animali, indagare sull’evoluzione di certi taxa (pensateci, l’evoluzione delle piante influenza quella degli erbivori, e viceversa) e quindi sull’intera storia della vita sulla Terra.

Eppure, vengono considerate di secondo piano…
Penso non ci sia niente di più triste che la posizione negletta delle piante rispetto a quella degli animali.

Thinking like a Fish!

Quando, all’età di 5 anni, cominciò la mia passione per le Scienze Naturali, ero affascinato soprattutto dai dinosauri e dai grandi mammiferi del Cenozoico, forse proprio perché incredibilmente grandi rispetto al mio essere piccino. Crescendo, mi sono sempre orientato verso i dinosauri e ho progettato la mia carriera scolastica per far si che un giorno diventassi un esperto in questo campo.
Quando si è giovani (ma ho scoperto che è pensiero comune anche di molti aspiranti paleontologi e paleontologi affermati) si ha una preferenza assoluta per certi tipi di animali preistorici, tale che alcune categorie vengono indegnamente tralasciate, come se fossero roba poco interessante o inutile da studiare.  Una di queste categorie è sicuramente quella dei pesci.
Ora, il mio rapporto con i pesci è sempre stato relativamente neutrale, non mi sono mai interessato ad essi da giovane, né mi sarei mai immaginato che un giorno sarebbero diventati parte integranti delle miei passioni paleontologiche e della mia vita (e, aggiungo, della mia casa).
Tuttavia, 4 anni fa cominciai a nutrire un forte interesse verso alcuni tipi di pesci tropicali e a voler allestire un acquario, all’inizio più per prova che per vera passione. Ora ne ho 4, e il desiderio di averne uno nuovo ogni giorno è costantemente insito in me (ed è il terrore di mia mamma).
Ora, dopo 4 anni di convivenza con questi animali (ho allevato varie specie, sia di pesci che di invertebrati d’acqua dolce) e aver cominciato anche ad interessarmi delle specie fossili (attualmente sto lavorando su dei nuovi esemplari mai descritti provenienti dal Triassico Italiano) posso dire che trovo il gruppo dei pesci (che, filogeneticamente parlando è parafiletico, con tutti i problemi che ne conseguono) uno dei più affascinanti del regno animale.  A volte, quando torno a dilettarmi con letture sui dinosauri, li trovo in qualche modo noiosi rispetto a questi animali….
Oggi però non voglio parlarvi di pesci fossili ma di un particolare, e triste, pensiero popolare sui pesci, ossia che essi siano stupidi e che la loro capacità cerebrale sia tremendamente bassa. In particolare, affronterò la questione parlando di quello che considero il più interessante pesce tropicale attualmente vivente: Betta splendens


Il mito della conquista della terraferma Parte 3: arti per....nuotare!

Nel 1932 il paleontologo Save – Soderbergh pubblicò uno studio preliminare su alcuni fossili del Devoniano che erano stato estratti durante una campagna di scavo avvenuta un anno prima in Groenlandia. Tra i vari fossili, erano stati trovati i resti di 14 individui di uno strano essere, che lo stesso Save – Soderbergh battezzò come Ichthyostega, letteralmente “placca da pesce”. 
Sulla base di quei 14 individui descrisse 4 diverse specie di Ichthyostega e un nuovo genere di tetrapodomorpho, Ichthyostegopsis.
Per ammissione dello stesso Save – Sodernbergh, che i fossili rinvenuti in quella spedizione testimoniavano che in quel periodo era avvenuto un passaggio cruciale della storia della vita sulla Terra. 
Tuttavia, lo sfortunato paleontologo non riuscì a terminare i suoi studi poiché morì 16 anni dopo.

L’eredità lasciata da Save – Soderbergh venne raccolta dal professor Erik Jarvik (colui che aveva già descritto in precedenza Eusthenopteron). Jarvik, studiando la collezione che era stata raccolta in numerosi anni di spedizioni in Groenlandia, scoprì una serie di fossili che il buon Save – Soderbergh non aveva studiato perché ritenuti troppo poco interessanti rispetto al “cruciale” Ichthyostega.
In particolare attirò la sua attenzione una pinna caudale che all’apparenza sembrava appartenere ad un innocente dipnoo devoniano.
Studiando il reperto in maniera approfondita, Jarvik si rese conto che questa pinna era collegata con un cinto pelvico munito di arti.
E, guarda caso, questo cinto pelvico e questi arti erano curiosamente simili a quelli di Ichthyostega!


Il mito della conquista della terraferma Parte 2: i Tetrapodomorphi

Nel precedente post abbiamo cominciato a vedere come le caratteristiche che noi consideriamo fondamentali per distinguere un vertebrato che cammina sulla terraferma (arti, polmoni) sono in realtà presenti anche in altri vertebrati che effettivamente tetrapodi non sono. Quindi, ci siamo sempre sbagliati e in realtà i tetrapodi non sono poi così speciali?

La verità sta nel mezzo.
Il problema consiste nel capire come in realtà la storia della vita sulla Terra sia fatta di una varietà incredibile di forme, spesso molto diverse da quelle che esistono ora, così diverse che molte volte è difficile confrontarle con quelle attuali. 
Tutto questo porta ad una gran confusione, specie se non si ha una visione globale (attenzione, parliamo sempre di record fossile, quindi di un qualcosa di incompleto) delle diverse forme che hanno abitato la Terra da quando è nata.

Il mito della conquista della terraferma nasce proprio da questa confusione, da un'idea che vede la morfologia "pesce" e la morfologia" tetrapode" così lontane e così distinte (e che vede la seconda come migliore rispetto alla prima) e da una visione finalistica dell'evoluzione.
Come vedremo, vi sono numerosi taxa che non corrispondono né ad una né all'altra tipologia, ma sono da considerarsi "intermedi" e simbolo di una storia della vita sulla Terra che fa del gradualismo (attenzione, non inteso nel senso di "progressione lineare e diretta") e della continua evoluzione la sua vera forza. E, probabilmente, alla fine del nostro viaggio (che si concluderà con il terzo post) ammetteremo che le nostre convinzioni (ossia, che gli arti si sono evoluti "per" camminare sulla terraferma, che i tetrapodi sono superiori agli altri animali, e che l'evoluzione procede secondo una sorta di "obiettivo") erano in realtà sbagliate.

Il mito della conquista della terraferma Parte 1: i pesci e l'antropocentrismo.

Per quanto mi riguarda, credo che uno dei compiti principali della divulgazione scientifica, a qualsiasi livello, sia quello di abbattere i grandi miti paleontologici che (ahi noi!) sono ormai radicati nella cultura popolare.  La visione distorta dei dinosauri che la gente si è fatta guardando Jurassic Park (bellissimo film, sia chiaro, ma scientificamente abbastanza fuorviante), o ciò che si pensa sull'evoluzione dell'uomo, spesso vista in maniera semplicistica e con una direzionalità finalizzata a noi,  o ancora al mito dell'esplosione dei mammiferi dopo l'estinzione (parziale) dei dinosauri, etc etc... Tutti questi sono miti, radicati nella cultura popolare ormai da molto tempo, creati dai documentari scientifici (o, spesso, pseudoscientifici), dalle notizie parziali e spesso superficiali che si ritrovano sui giornali e in giro per il network, e dalla mente umana, più attratta dalle suggestioni che queste storielle portano inevitabilmente con loro che non dal fatto, dal dato scientifico.

Proprio per questo, come promesso, oggi vi parlerò di uno dei più grandi miti paleontologici: la conquista della terraferma da parte degli animali dotati di zampe.
I vertebrati che oggi popolano le terre emerse sono tutti inseriti in un gruppo chiamato Tetrapoda, letteralmente “quattro piedi”. Di esso fanno parte tutti gli animali muniti di zampe con dita, quindi ad esempio lucertole, rane, piccioni, mucche, cani, serpenti (derivati da parenti con dita, che poi hanno perso nel corso della loro storia evolutiva), balene, delfini, pipistrelli e, ovviamente, anche noi uomini.

Come tutti sanno, anzi, come tutti pensano di sapere, gli arti dei tetrapodi si sono evoluti  per permettere agli animali di camminare sulla terraferma, in modo da occuparne gli ambienti. I tetrapodi quindi (così racconta il mito) si sono evoluti da pesci che hanno sviluppato piano piano delle zampe con lo scopo di avventurarsi fuori dall’acqua.
Benché questa storia abbia certamente un suo fascino, essa è falsa, poiché si basa sull’assunto che l’evoluzione debba avere uno scopo, una finalità. 

Geni Hox e Dintorni

Nella precedente PaleoStoria abbiamo parlato dei geni Hox e di come il loro numero vari a seconda dei diversi gruppi di animali e di come questi siano importanti per l'organzzazione del corpo.
Ma, cosa sono questi geni Hox? E perchè è interessante conoscere la loro funzione e la loro distribuzione nel corpo? A queste due domande tenterà di rispondere il post di oggi.

Vi siete mai chiesto perchè la maggior parte degli animali abbiano proporzioni e disposizioni corporee simili? perchè noi, il topo, il tonno e l'aragosta (per esempio), possediamo tutti quanti una bocca posta anteriormente e  un ano posto posteriormente? perchè non il contrario? entrambi abbiamo anche una porzione anteriore e una posteriore, i nostri organi crescono in posizioni simili, tra la bocca e l'ano, la coda in tutti questi animali si trova dietro la cavità anale, etc.. Quindi, tutti questi animali sembrano avere un piano corporeo molto simile e apparentemente ordinato secondo medesime istruzioni. 
Perchè? E' veramente così?

La risposta è si. Tutti questi animali hanno un medesimo piano di organizzazione corporea insito nel loro DNA, che durante il loro sviluppo embrionale fa si che ogni cosa cresca nel modo giusto, e  questo modo giusto è lo stesso per gran parte degli animali (nonchè per tutti quelli menzionati prima).
Tra le tante cose che fanno si chè questo sviluppo organizzato si attui, ci sono anche i nostri geni Hox, di cui ora parleremo, seppur in maniera ancora generale, più in dettagglio. Tralascio gli altri fattori perchè richiederebbero basi di genetica relativamente complesse e non è mio obbiettivo parlare di queste cose.

La scoperta dei geni Hox è frutto (come un sacco di altre scoperte nel campo della genetica) degli innumerevoli studi effettuati dai ricercatori su un piccolo animaletto, un moscerino della frutta che risponde all'altisonante nome di Drosophila melanogaster.  Questo piccolo esserino, decisamente uno degli animali più studiati in laboratorio, presenta una conformazione fisica simile a quella della maggior parte degli altri animali, con una simmetria bilaterale, un apparato digerente completo, appendici pari, etc. E soprattutto ha il grande vantaggio di riprodursi in pochissimo tempo, in modo da poter fornire rapidamente varie generazioni da studiare (nonchè tanti "pazienti" da poter esporre ai più disparati esperimenti).
Grazie allo studio dello sviluppo embrionale di questi insetti, gli studiosi si sono accorti che ogni tanto avvengono mutazioni a livello genetico, tale che alcuni individui nascono "deformi", per esempio con antenne al posto degli occhi, o con un paio di ali in più, o ancora senza alcune parti del corpo, etc.

La domanda quindi è ovvia: perchè alcune parti del corpo crescono dove non dovrebbero crescere? perchè al posto degli occhi crescono le antenne? cosa regola quali e in che luogo le varie parti del corpo devono crescere?

Attraverso una serie di tecniche che permettono di visualizzare il cromosoma, i ricercatori sono riusciti ad indivuare la zona di cromosoma responsabile di queste mutazioni, scoprendo che in Drosophila esistono otto geni che sviluppano mutazioni, disposti uno di fianco all'altro all'interno di una delle due lunghisime eliche che compongono il suo DNA. In maniera sorprendente (ma forse neanche più di tanto) questi geni sono disposti in maniera ben organizzata, con i geni che determinano i mutamenti della testa seguiti da quelli che determinano la porzione centrale del corpo, poi da quelli che concorrono all'organizzazione della parte posteriore. La disposizione di questi geni sul filamento rispecchia la reale posizione delle parti del corpo nell'animale sviluppato. Sorprendente vero?
Questi otto geni presenti in Drosophila sono i nostri cari geni Hox.
E, udite udite, questi geni Hoxx si trovano in qualsiasi animale dotato di un corpo!
Bingo!

Ora sappiamo che in tutti gli animali muniti di un corpo vi è una sequenza (più o meno lunga) di geni Hox, che svolgono una funzione fondamentale nell'organizzazione del corpo. Versioni diverse degli stessi geni gestiscono la disposizione antero - dorsale del corpo di quasi tutti gli animali, dal polpo al moscerino, dall'anguilla al cavallo. Se si vanno a toccare i geni Hox l'impianto corporeo si modifica imprevedibilmente: togliamo ad una Drosophila un gene nella zona delle antenne e queste non si formeranno, o si formeranno nel modo non appropriato. In questo modo possiamo modificare a nostro piacimento (!!) il sistema corporeo di un qualsiasi animale di cui riusciamo a modificare i geni Hox.

I geni Hox stabiliscono inoltre anche le proporzioni delle varie parti del corpo, sono attivi nello sviluppo di organi, tessuti, arti, scheletro, genitali, etc..

Come abbiamo visto in precedenza, animali diversi hanno un numero diverso di geni Hox. 2 geni Hox sono presenti negli Cnidari, circa 4 (ma non si sa ancora bene) negli Acoelomorpha (vi ricordate il precedente post sulla simmetria bilaterale?), 8 in Drosophila e gli insetti, e 39 in noi e gli altri mammiferi.

E, se guardiamo bene, i 39 nostri geni Hox non sono altro che modificazioni degli 8 geni Hox di Drosophila, così come questi sono una versione diversa dei 4 geni Hox degli Acoelomorpha e così via.

Nonostante la differenza di complessita quindi, gli animali possiedono tracce di un loro legame intrinseco molto forte, come ci dimostrano appunto i geni Hox. Probabilmente, mutazioni e duplicazioni nel corredo genetico di animali dotati di un set di geni Hox ancora poco sviluppato, come potrebbe essere l'antenato comune dei metazoi, avrebbe portato poi a sviluppare quella complessità (o, se guardiamo ai geni Hox, quell'ordine meravigliosamente disposto) che oggi noi vediamo nel mondo animale.