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Il futuro di Paleostories

Cari lettori,
scusate se sono stato assente in questi ultimi giorni.
E' un periodo importante della mia vita professionale. 
Ho appena ottenuto la laurea magistrale in Paleobiologia, terminando un periodo intenso di lavoro alla tesi e preparazione, che mi ha portato via tempo prezioso per il blog.
Ma è stato tempo utile, senza dubbio.

Non c'è mai tempo, però, per riposare. A gennaio inizierò una nuova vita personale e professionale. Ho ricevuto un offerta per un posto di dottorato all'Imperial College di Londra, in un progetto che riguarda lo studio del cranio dei placodermi e in generale della filogenesi degli stem gnathostomi.
Mi sto dunque preparando intensamente, migrare in un paese sconosciuto non è facile e bisogna prepararsi bene, non solo a livello mentale ma anche per quanto riguarda burocrazia e documenti.
E' un bel momento, di felicità e di trepidazione (non vedo l'ora di iniziare).

Ho però bisogno di prendermi un pò di tempo per sistemare tutte le necessità, e dunque il,blog starò fermo fino a gennaio.
Ma non temete, Paleostories ripartirà con nuova linfa e rinnovato entusiasmo (e forse con un taglio un pò più internazionale).
Nel mentre, ho deciso che almeno un'occhiata al blog la devo dare e quindi mi sono proposto di tornare indietro, rileggermi tutti i post e correggere eventuali errori di battitura, sviste ripetizione. E, ovviamente, per vedere se c'è qualche cosa lasciata in sospeso, un punto di aggangio per eventuali nuovi post.

Ci vediamo dunque a gennaio,  spero avrete la pazienza di aspettare.
A presto


Chi siamo, da dove veniamo (parte 4): ciò che realmente conosciamo dell'origine dei tetrapodi

Terzo post sulle implicazioni fornite dalla scoperta delle orme di Zachelmie.
Per chi si fosse perso i due post precedenti (qui e qui),  riassumo dicendo che sono state trovate, in Polonia, nella cava di Zachelmie, orme di tetrapodi di vario tipo (piste, orme singole) e dimensioni, in strati marini di ben 10 milioni di anni più antiche di qualunque resto scheletrico noto di tetrapodomorfo. Esse indicano come, a differenza di quello che si pensava prima di questa scoperta, vari taxa di tetrapodi erano già presenti nel Devoniano Medio.
Negli scorsi post ho parlato dei risvolti relativi al tempo e all’ambiente in cui si sono originati i tetrapodi.
Oggi invece vi voglio mostrare forse il più importante insegnamento dato da questo ritrovamento.
Alcuni utenti mi hanno scritto in privato dicendomi di essere rimasti un po’ confusi da questa scoperta: “ma quindi i tetrapodi si sono originati in acqua dolce o salata?” Com’è possibile che i resti di tetrapodomorphi siano più recenti dei primi segni di tetrapodi?”
Queste domande sono tutte correlate ad una sola, grande domanda, che è l’argomento del post di oggi: “quanto il record fossile dei primi tetrapodi rispecchia la loro reale evoluzione?”
Il problema è proprio questo.

Chi siamo, da dove veniamo (Parte 3): dove si sono originati i tetrapodi?

Niedzwiedzki et al. (2010) descrivono delle orme di tetrapode provenienti dalla cava di Zachelmie, in Polonia, e risalenti al Devoniano medio, circa 20 milioni di anni più vecchie dei primi resti di tetrapodi.
Della scoperta e di cosa questa comporta  nel rivoluzionare quello che si pensava sul periodo di origine dei tetrapodi ho già parlato nel precedente post.
Le nuove frontiere aperte da questa scoperta, però, non si fermano a questo.

Le impronte di Zachelmie si trovano su strati appartenenti alla formazione di Wojciechowice: dati sedimentologici indicano come questa formazione si sia deposta in ambiente marino, tidale o lagunare, di acqua estremamente bassa e con poco apporto terrigeno (dunque acqua abbastanza ferma).
Gli strati in cui sono state trovate le impronte mostrano l'esistenza di episodici momenti in cui il substrato è stato esposto all'aria, come indicano la presenza di laminazioni con segni di spaccatura da disseccamento e impronte di pioggia.

Se vi ricordate, fin'ora abbiamo sempre visto come l'ambiente di vita dei primi tetrapodi è sempre stato associato ad ambienti con folta vegetazione, mangrovieti, lagune con piante galleggianti, e che appunto si ritiene che le dita si siano sviluppate per farsi spazio in questi ambienti irregolari e tortuosi.
Che le più antiche orme di tetrapodi, più antiche dei resti di Ichtyostega, Acanthostega, Tiktaalik, etc., provengano da un ambiente marino, è dunque un dettaglio da non sottovalutare.

Chi siamo, da dove veniamo (parte 2): la scoperta che riscrive la storia dei tetrapodi


Nel post precedente vi avevo raccontato la storia dei tetrapodi. Quella che conosciamo oggi, con Eusthenopteron, Tiktaalik, Acanthostega, Ichthyostega e tutti gli altri "eroi della transizione da pesci a tetrapodi".
Tuttavia, vi avevo lasciato con il dubbio se ciò che oggi noi sappiamo rappresenti la realtà o solo una nostra illusione di pensare di essere sulla strada giusta.

Ho deciso di iniziare questa serie con un racconto fantastico, ma basato su dati reali, per provare a fare un giochino con i miei lettori. 
Nel prologo raccontavo di un piccolo crostaceo di 395 milioni di anni fa che, uscendo dal mare, incontrava sul bagnasciuga delle impronte di tetrapodi. Il racconto è chiaramente fantastico perchè inventato da me, ma è basato su una serie di dati reali.
Vi avevo chiesto di confrontare il prologo con il riassunto (molto riassunto) di ciò che sappiamo, grazie ai fossili, dell'origine dei tetrapodi e di vedere se si potevano trovare delle incongruenze.
Alcuni di voi hanno provato a rispondere, andando più o meno dritto al problema.

La risposta è racchiusa nella prima riga: Polonia, 395 milioni di anni fa, Eifeliano.
Pensateci un attimo: impronte di tetrapodi a cinque dita 395 milioni di anni fa, ossia circa 20 milioni di anni prima del più antico tetrapode noto? Impossibile! 
O forse no?

Chi siamo, da dove veniamo (Parte 1): la favola dei tetrapodi

A volte le informazioni che stiamo cercando ci passano sotto gli occhi ma non ce ne accorgiamo. Eppure sono li. Evidenti, leggibili.
Ho appositamente lasciato per qualche giorno il prologo di questa serie come primo post del blog, nella speranza che qualcuno si accorgesse che in quel post "c'è qualcosa che non va".
Nel prologo ho immaginato una possibile scena di un paesaggio Devoniano, impersonando un crostaceo che, uscendo dall'acqua e incamminandosi verso l'entroterra, incontra delle orme di tetrapode.
Forse mi sono dimenticato di scrivere che quel post, seppur immaginario, è basato comunque su dati reali.
Ma non voglio svelarvi tutto subito.

Facciamo il giro largo.
L'origine dei tetrapodomorphi e dei tetrapodi è un argomento a cui ho dedicato molti post, qui su Paleostories, perchè è un argomento che mi sta molto a cuore. Soprattutto, è un argomento di cui ancora non conosciamo abbastanza per avere un'idea chiara e che, purtroppo,è spesso malinterpretato.

Negli ultimi anni, diciamo a parire dagli anni 80', vi sono state numerose scoperte nel campo della paleontologia dei tetrapodi basali. Panderichthys, Tiktaalik, Elpistonge, Acanthostega, Ichtyostega e altri incredibili ritrovamenti hanno aiutato i paleontologi a ricavare preziose informazioni sull'origine dei tetrapodi.
Di molti di loro ho già scritto in vari post, qui sul blog (vedere l'indice del blog), ma non è di questo che voglio parlare oggi.

Chi siamo, da dove veniamo: la lunga storia dei tetrapodi (Prologo)

Polonia, 395 milioni di anni fa, Devoniano medio (Eifeliano)

Il sole sta per tramontare dietro l'orizzonte, la marea si sta alzando, dopo aver mostrato per qualche ora la nuda sabbia oltre il limite dell'acqua.
Piccole onde salate si infrangono sul litorale.
Poco più avanti, un tappeto di muschi, alghe, sovrastate dalle prima piante che, forti delle loro radici, si godono gli ultimi raggi della stella, filtrandoli dalle loro piccole foglie verdi.
Ad un tratto, un piccolo crostaceo emerge dall'acqua zampettando verso la ricca zona verde, in cerca di qualche resto vegetale marcescente.
Cammina sicuro e veloce, non sembrano esserci pericolo intorno.
Il crepitio di altre zampe che si muovono non lo preoccupa più di tanto.
Cammina, la sabbia ancora umida è una superficie su cui muoversi saldamente.
All'improvviso, ecco che appaiono delle irregolarità sulla piatta battigia, una depressione, profonda qualche centimetro e lunga più di venti centimetri.
Il crostaceo la attraversa, un pò esitante.
E' finita: dopo la salita, ancora sabbia umida, forte e piatta. 
Poi però un'altra depressione, e poi un'altra ancora.
Le depressioni sembrano susseguirsi con un ritmo regolare.
Hanno una forma strana: un grosso tondo al centro e cinque piccole fossette allungate nella parta anteriore.
Sembrano impronte, impronte a cinque dita...
Ancora una salita, dopo la traversata nell'ennesimo fosso e il piccolo crostaceo si ferma; assaggia l'aria, lo sguardo attento.
La strada per  arrivare al paradiso verde è ancora lunga.
Si affrettà, chissà se arriverà sano e salvo...

Paleonews: il corpo (e che corpo!) di Deinocheirus

Notizia veloce giunta dall'ultimo SVP (Society of Vertebrate Palaeontology) meeting.

Tutti gli appassionati di dinosauri conosceranno sicuramente Deinocheirus, un ornitomimosauro delCcretaceo superiore della Nemegt Formation, in Mongolia.
Di questo dinosauro, fino a poco tempo fa, erano noti solo gli arti anteriori e il cinto pettorale. Tuttavia, già questo bastava a rendere Deinocheirus famoso: gli arti anteriori misurano infatti quasi 2 metri e mezzo, con un omero di circa 90 centimetri e una mano di oltre 75 centimetri. Si tratta quindi di uno dei dinosauri theropodi più grandi noti per quanto riguarda le dimensioni dell'arto anteriore.


Non conoscendone il corpo, Deinocheirus veniva raffiguato come un gigantesco ornithomimosauro (data la parentela con Struthiomumus, Gallimimus e compagnia), che avrebbe raggiunto la lunghezza di circa 10 metri.


Fortunatamente, e con grande meraviglia, recentemente è stato trovato un nuovo esemplare di Deinocheirus, stavolta munito dell'intero corpo (tranne cranio e piedi) . La scoperta è stata sconvolgente.
Dal nuovo resto, sembra che questo dinosauro possedesse una sorta di vela nella parte posteriore del corpo, simile a quella riscontrata in altri dinosauri come Ouranosaurus e Spinosaurus.

Per farvi avere un'idea, ho trovato questo bel disegno (preliminare, a detta dell'autore), del nuovo Deinocheirus.


L'articolo ufficiale non è ancora stato pubblicato, ma sembra proprio che siamo di fronte ad una scoperta eccitante, che sicuramente farà parlare di se per lungo tempo.
Nel frattempo, potete leggere due articoli (in inglese), da questi blog:

- saurian.blogspot.it: newly discovered skeleton of Deinocheirus

National Geographic: Mystery Dinosaur Finally Gets a Body

Ammetto che, nonostante non siamo il mio campo, anch'io non vedo l'ora di sapere i dettagli.
Wait for the paper!

P.S. Rettifica: ho tolto il pezzo in cui parlavo del cranio: non è stato trovato (fonte: theropoda.blogspot.it) e il post del blog saurian è semi-serio (la scoperta è quella giusta, le informazioni appositamente travisate). Mi scuso per l'incoveniente (che comunque non toglie valore alla scoperta.
Fate riferimento ai blog inseriti in questo post come riferimento, nè sanno sicuramente più di me in materia di dinosauri.

Dare un volto all'antenato comune

Uno degli scopi di questo blog è parlare di argomenti paleontologici non molto popolari, nel tentativo sia di far cadere dei falsi miti o di far conoscere "paleostorie" importanti ma poco conosciute, sia di tentare di far appassionare qualche eventuale lettore a questi ambiti.
Con mio grande piacere, negli ultimi mesi ho ricevuto mail private o messaggi sulla pagina facebook di paleostories, di lettori incuriositi e interessati ad alcuni argomenti trattati nel blog. 
Questo mi rende chiaramente contento.
Scrivere per se stessi può essere stimolante, ma nulla paragonato a scrivere per gli altri.
Il seguente post nasce dunque da una domanda fattami da un lettore circa l'aspetto "dell'antenato comune dei veri gnathostomi alla luce degli ultimi studi pubblicati".
Prima di leggere il resto, è Assolutamente Importante prendere visione di questi tre post (1,2,3)

Come abbiamo visto nel precedente post, è possibile tentare di ricostruire l'aspetto dell'antenato comune di due gruppi poichè esso (teoricamente) possiede i tratti condivisi dai due gruppi derivati.
Provo a fare un'esempio: se vogliamo ricostruire com'era fatto l'antenato comune più recente degli amnioti, dobbiamo considerare quali sono le caratteristiche comuni (non derivate e non analoghe) dei gruppi discendenti che sono legati da questo antenato comune.
I gruppi all'interno di amniota (Sinapsida e Diapsida) possiedono entrambi quattro arti, uno scheletro interno osseo, un rivestimento cutaneo adatto ad un ciclo di vita completamente terrestre, un sistema escretore atto a diminuire la perdita d'acqua in ambiente aereo, insieme al sistema respiratorio, dita artigliate e, cosa più importante, un uovo formato da annessi embrionali (amnios, corion e allantoide) tale da poter scollegare il ciclo riproduttivo dall'acqua.
Ora, siccome queste caratteristiche sono presenti in tutti i rami interni ad amniota, esse rappresentano le proprietà che legano questi rami in unico punto. Punto che consiste nel più recente antenato comune.
Dunque, se vi chiedessero com'era fatto l'ultimo antenato comune degli amnioni (o se vogliamo, il primo amniote, anche se ricordatevi che non sapremo mai chi fu veramente), rispondetegli che era munitio di quattro arti, molto probabilmente artigliati, possedeva un sistema respiratorio, un rivestimento cutaneo e un apparato escretore atto ad un ciclo vitale completamente terrestre, produceva un uovo con annessi embrionali, etc...

Pensieri sparsi su antenati comuni e anelli mancanti

Le parole antenato comune e anello mancante confondono, questo è fuori questione.
Da quando questi termini  sono diventati di dominio pubblico, ad ogni scoperta paleontologica di un certo ambito (su tutti, origine dell’uomo e origine tetrapodi) veniamo invasi da frasi come “l’anello mancante di tutti noi aveva queste caratteristiche, viveva qui e X milioni di anni fa”.
E puntualmente dopo ogni nuova scoperta quello che fino al minuto prima era l’antenato comune, l’anello mancante, viene spodestato da quello nuovo, in una spasmodica ricerca dell’”antenato comune definitivo”.
Tutto ciò ha portato ad una mitizzazione delle parole anello mancante e antenato comune.
Due parole che in realtà hanno una valenza scientifica molto più seria di quanto si pensi.

Da un punto di vista puramente tecnico, l’antenato comune di due taxa (discendenti) è quel taxa da cui questi (i discendenti) sono derivati, per un evento di speciazione.
Tuttavia questa definizione è difficile da usare in paleontologia, dove non vediamo segni di speciazione diretta. In paleontologia, se due organismi hanno un antenato in comune significa che possiedono delle caratteristiche condivise che sono tali perché possedute da un organismo primitivo dal quale si sono poi divise le due linee che hanno portato ai due discendenti.
Ma una cosa importante da capire è che si può parlare di antenato comune a diversi livelli. Per esempio, noi condividiamo un antenato in comune con lo scimpanzé, perché siamo primati, ma ne dividiamo uno anche con il cane, poiché siamo mammiferi, e ne dividiamo anche un altro il coccodrillo, perché siamo amnioti, e un altro ancora con il pesce rosso, perché siamo osteitti, etc, giù, fino all’origine della vita.
Quando si parla di antenato comune, dunque, bisogna stare attenti, perché è un termine che può voler dire tutto e niente.
E’ un termine che va contestualizzato.

Il mito della conquista della terraferma Parte 4: le verità di Ichthyostega

Non c'è episodio nella storia dell'evoluzione dei vertebrati di cui si sia più parlato, speculato, sognato, come del passaggio da vertebrati acquatici a vertebrati terrestri.
Il mito racconta che alcuni pesci, PER sfuggire alla siccità, PER cacciare o PER qualsiasi altra motivazione (e ne sono state dette tante) abbiano sviluppato arti funzionali e dita e si siano avventurati sulla terraferma, dando poi origine a quella florida linea di animali a quattro arti, appunto, i tetrapodi, che vedrà il suo punto massimo con la comparsa dell'uomo.
Ho detto appunto che il mito racconta così, perchè di questo mito ho già parlato spesso sul blog, sperando di avervi fatto capire come molte cose che pensavamo di sapere su questo argomento si stanno rilevando in realtà false o, soprattutto, forzate.
Oggi molto paleontologi pensano che gli arti dei tetrapodi si siano originati in ambiente acquatico per migliorare il movimento in certi ambienti irregolari e che richiedevano una certa interazione, come gli intricati labirinti di mangrovie, e non con la finalità di camminare sulla terraferma
Anzi, questo episodio può essere preso come esempio massimo di exaptation, termine che indica come una struttura originatasi con una funzione ben precisa sia stata poi riutilizzata per un'altra.
Altro esempio, se non avete capito, potrebbero essere le piume degli uccelli, utilizzate inizialmente come isolante termico (o come segnale sessuale) e poi adattate ad essere funzionali al volo.
Tornando a noi, il post di oggi vuole parlare di un animale che rappresenta (o sicuramente ha rappresentato) l'emblema del mito della conquista della terraferma: Ichthyostega.
Ichthyostega è un tetrapodomorpho del Devoniano superiore (circa 375 - 359 milioni di anni), i cui fossili sono stati rinvenuti in Groenlandia, considerati per moltissimi anni uno dei taxa chiave nel campo dello studio dell'evoluzione dei primi tetrapodi (lo è ancora, anche se il ritrovamento di altri tetrapodomorphi basali oggi lo rende un pò meno speciale).
Di questo animale ho già parlato più o meno approfonditamente qui, e avevo mostrato come Ichthyostega possegga caratteristiche adatte più ad uno stile di vita acquatico che non terrestre, pur non escludendo la possibilità che potesse muoversi anche sulla terraferma

Simpatica ricostruzione di un Ichthyostega che, in questo caso, ha chiaramente sviluppato gli arti per scappare dal Natural History Museum of Wien.
Oggi vediamo un particolare aspetto di Ichthyostega, frutto di recenti studi, che colpisce ancora la veste menzioniera del mito.

Entelognathus in the sky with diamonds

Chi di voi non conosce la romantica storia di Lucy, il primo fossile scoperto di Australopithecus?
Piccolo riassunto: nel 1974, in Etiopia, una squadra di paleoantropologi stava scavando in cerca di resti di ominidi ascolta i Beatles. Ormai la band si era sciolta da un paio di anni, ma le loro canzoni era ancora (e lo sarebbero rimaste ancora per moltissimo tempo) rieccheggianti nelle menti dei numerossimi fan.
Ad un certo punto, mentre ascoltavano la canzone Lucy in the sky with diamonds, la squadra trova lo scheletro, parzialmente completo, di quello che sarebbe diventato poi uno dei fossili più famosi del mondo. I paleoantropologi non potevano credere ai loro occhi: davanti a loro lo scheletro di una femmina, alta circa 1 metro, di una creatura ancora somigliante ad una scimmia ma con palesi caratteri che la legavano all'uomo, soprattutto nella zona della mandibola e del bacino.
Lo avevano trovato,"l'anello mancante".
Chiamarono il loro esemplare Lucy, in onore della canzone che stavano ascoltando.
Fu una grande giorno per la paleontologia mondiale, un giorno un pò meno felice per chi, da quel giorno, si ossessionò agli "anelli mancanti", ma questo è un altro discorso.

Perché ho parlato di Lucy?
Be, perchè il fossile di cui vi parlerò è stato definito da alcuni paleontologi  come la "Lucy" dell'evoluzione dei primi vertebrati, il fossile che da tempo i paleontologi che studiano l'origine delle mascelle e degli gnathostomi stavano aspettando (ma è veramente così?).
Questo fossile:

Particolare del fossile di Entelognathus. Da Zhu et al., 2013

Ma per comprendere meglio perchè questo fossile è importante, devo fare un pò il giro largo.

Oggi la nostra visione del regno animale è piuttosto distorta a causa delle molte forme estinte che non vediamo (se non in rari casi attraverso i fossili). 
Un esempio classico riguarda gli gnatostomi, di cui oggi possiamo osservare solo alcuni gruppi. 
Nella loro ripartizione classica, gli gnatostomi moderni si possono dividere in pesci cartilagine, o Chondrichthyes (squali, razze, chimere) e pesci ossei, o Osteichthyes (attinopterigi, dipnoi, celacanti e tetrapodi). 


L'intorno di Vertebrata così come ci appare oggi guardando solo le forme esistenti. Immagine autoprodotta.

I predatori della preistoria ep.6: rettili volanti e fritto misto

Questo post nasce da una delle presentazioni che ho avuto modo di vedere durante il Symposium on Vertebrate Palaeontology and Comparative Anatomy, tenuto nella sua edizione 2013 nella bellissima Edimburgo.
Al convegno ho potuto rivedere tanti amici e conoscere anche persone nuove, studenti, professori e paleontologi di fama internazionale.
Anche quest'anno, come gli altri anni, il convegno è stato arricchito da numerose presentazioni e sessioni di poster (compreso un Castiello et al.) riguardanti la paleontologia dei vertebrati e la loro anatomia (dalla forza del morso dei roditori pleistocenici al movimento dei flipper dei rettili marini, dalla pneumatizzazione delle vertebre di sauropode alle nuove scoperte sui tetrapodomorphi carboniferi, e molto altro).
Per chi magari è abituato a lavorare sul un ristretto campo, su un particolare gruppo di animali, è stata l'occasione per imparare qualcosa anche sul resto del grande gruppo dei vertebrati, e così è stato anche per me.
Oggi vorrei parlare di una delle presentazioni che mi è piaciuta di più e lo faccio riallacciandomi alla serie sui predatori della preistoria, che vuole raccontare come si possano fare inferenze su questo, mitizzato ma importante, aspetto della biologia degli organismi anche partendo da dati reali, da fossili che esistono davvero e che ci forniscono dati importanti per non rendere il discorso legato alla pura speculazione.

La camaleontica mano di Struthiomimus

Finiti i mille impegni estivi, sono quasi pronto a ripartire con le nostre paleostories.
Questa estate avevo pubblicato un mini paleoquiz.
Scusa se ci ho messo più tempo del previsto, dovevo prima verificare alcune cose.
La domanda era: cos'hanno in comune il teropode cretaceo Struthiomimus e un odierno camaleonte?
















Il titolo svela in parte la risposta. La struttura che accomuna i due animali è la mano e, aggiungo ora, la conformazione del cinto pettorale.

Cosa bolle nella paleopentola.

Cari lettori,
scusate se per tutto agosto sono stato assente (ero in vacanza) e se (lo annuncio già) ci vedremo poco anche nel mese di settembre (fino al 19, poi torno a pieno regime).
Ho molti progetti a cui sto lavorando, progetti che mi stanno portando via molto, molto tempo.

Cosa bolle in pentola?
Alcune anteprima:
fra pochi giorni partirò alla volta di edimburgo per il mio secondo meeting  SVPCA (Annual Symposium of Vertebrate Paleontology and Comparative Anatomy) dove presenterò un poster su un lavoro che sto facendo con il prof. Silvio Renesto, con illustrazioni del fedele Stefano Broccoli, sul cinto pettorale e la muscolatura dell'arcosauromorfo triassico (italiano) Megalancosaurus.

Già che sarò al simposio avrò l'occasione di sentire le ultime news su moltissimi aspetti della paleontologia dei vertebrati (quest'anno un numero di presentazioni e poster veramente incredibile). Magari al mio ritorno potrei dedicare alcuni post sulle novità più importanti.

Tra gli altri progetti, un progetto di lavoro su un possibile nuovo geoparco in italia (ma non posso dire di più, giachè l'iter burocratico, se ci sarà, sarà lungo), e un'idea per uno studio su un fossile italiano ancora nasconto in un cassetto che andrebbe assolutamente studiato (secondo me), e su cui ho preso contatti..ma questo è davvero super super top secret.

Spero di portare buone notizie
a presto

Paleostories in vacanza

Il blog è momentaneamente sospeso per vacanze estive, i post riprenderanno dopo il 20 agosto.
Buone vacanze a tutti,
a presto!

L'estinzione di fine Devoniano Parte 3: colpa di più colpe?

Con questa mini serie stiamo anallizando l'estinzione di massa avvenuta verso la fine del Devoniano, circa 375 milioni di anni fa.
Oggi, dopo aver visto le vittime, e l'interessante firma ecologica di questa estinzione, vediamo cosa potrebbe aver causato questa importante crisi biologica.

Piccolo riassunto: abbiamo visto che tra le vittime vi furono un gran numero di forme marine, soprattutto invertebrati (collasso delle barriere coralline, scomparsa di oltre il 90% del fitoplancton, del 75% dei generi di brachiopodi, di buona parte dello zooplancton). Tra i vertebrati, gravemente colpiti furono i placodermi, che si estinsero completamente, e molti taxa di sarcopterygi e tetrapodomorphi scomparvero. Anche sulla terraferma, seppur in maniera minore, la vita non fu risparmiata dalla crisi, che colpì soprattutto le piante.
Oltre alle vittime, abbiamo visto due curiosi aspetti di questa estinzione: per prima cosa, non fu un episodio singolo ma una serie di mini eventi, che colpirono in maniera diversa gruppi diversi, in tempi diversi. Ciò significa che, nel nostro tentativo di individuare la causa di questa estinzione, dobbiamo tener conto la possibilità che vi siano state cause diverse per ogni mini impulso di estinzione, e quindi, in una visione generale, che questa estinzione abbiamo avuto più di una singola causa.
Inoltre, questa crisi biologica pare sia caratterizzata da una diverso grado di estinzione a seconda dell'ambiente: come abbiamo visto, gli animali che abitavano le basse latitudini e l'equatore, così come quelli che avevano un areale poco ampio e poco vario, furono maggiormente colpiti. In più, la crisi si fece maggiormente sentire negli ambienti di acqua bassa, vicino alle coste, piuttosto che in profondità, e maggiormente nel mare piuttosto che in acqua dolce.

Lo scorso post, vi avevo invitato a riflettere su questi punti, perchè, e ora lo vediamo, il fatto che vi siano state conseguenze diverse a seconda di latitudine e tipo di ambiente è strettamente legato alle possibili cause.

L'estinzione di fine Devoniano Parte 2: al posto sbagliato nel momento sbagliato

Nel primo post di questa mini serie sul grande evento di estinzione di massa avvenuto verso la fine del Devoniano, circa da 390 a 360 milioni di anni fa, avevo iniziato la disamina su questa estinzione partendo dalle vittime, presentando i vari gruppi di animali colpiti da questa crisi, i sopravvissuti, i gruppi che ne risentirono in maniera minoritaria.
Oggi invece vorrei fare alcune osservazioni su quello che ritengo l'aspetto più interessante di questo evento catastrofico, un aspetto che forse lo caratterizzata e lo distingue rispetto alle altre grandi estinzioni di massa avvenute nel corso dell'esistenza del nostro pianeta.

Paleodoctor Why

Visto che nella blogosfera vanno molto di moda i quiz ho deciso di proporne uno anche io, sperando che abbiate voglia di partecipare.

La domanda è: cos'hanno in comune il teropode cretaceo Struthiomimus e un odierno camaleonte?















La risposta, a tempo debito (finita la serie sull'estinzione devoniano), su questo blog...

PaleoNews: come Raptorex morì per mano di un pesce

A volte anche piccoli dettagli possono risultare importanti e ribaltare ciò che fino a quel momento pensavamo di aver saputo.
E questo è senz'altro il caso descritto in un articolo freschissimo apparso nella quinta edizione del (magnifico) libro Mesozoic Fishes.
Newbrey et al. (2013) descrivono un centro isolato e un premascellare di un teleosteo, provenienti dalla Nemegt Formation, in Mongolia, risalente al Cretaceo superiore (Campaniano superiore - Maastrichthiano inferiore, circa 70 milioni di anni fa).
I resti posseggono caratteristiche distintive tale da poterli assegnare al gruppo degli hiodontidi, un gruppo di teleostei molto primitivi, come ad esempio un atlante con una faccetta articolare anteriorem la cui metà dorsale presenta due distinte faccette articolari per la vertebra successiva, oppure un parapofisi fuse con il centro, e altri caratteri.
Ma cosa c'entra tutto questo con un animale terrestre come Raptorex?
Torniamo un attimo indietro.
 
Nel 2009, Sereno et al. descrissero i resti di Raptorex, un piccolo esemplare di tyrannosauroide, noto per un unico scheletro, abbastanza completo, proveniente dal Cretaceo inferiore della Cina.
La scoperta fece scalpore, perchè, secondo le interpretazioni di Sereno et al. (2009), Raptorex, il cui scheletro era stato identificato come appartenente ad un esemplare subadulto, possedeva già i caratteri distintivi dei tyrannosauri più derivatipur essendo un genere di piccole dimensioni e soprattutto piuttosto antico, essendo esso stato datato a circa 125 milioni di anni fa. Secondo Sereno et al., grazie alla scoperta di Raptorex si poteva ipotizzare come le caratteristiche distintive dei tyrannosauri più derivati, come ad esempio un cranio robusto e ampio e un arto anteriore con solo due dita, fossero apparse del previsto e anche in taxa di piccole dimensioni, e che dunque non fossero legati al gigantismo, come precedentemente ipotizzato.
Dato che i tyrannosauroidi a lui contemporanei possedevano invece tre dita nell'arto anteriore e un cranio lungo e stretto, Raptorex appariva davvero come un'importante novità.

Qual'era dunque il problema?

L'estinzione di fine Devoniano Parte 1: diving drama

Avevo intenzione di preparare un nuovo post sulla storia paleontologica d’Italia, un post dedicato al Carbonifero Italiano. Ma poi mi sono fermato un attimo a pensare.
Negli ultimi giorni, sia qui sul blog che con alcuni miei colleghi, mi è capitato di trovarmi a parlare delle estinzioni di massa, delle loro cause e delle vittime.
Nell’ultimo post sul Devoniano, grazie ancora una volta ad un commento di Robo, abbiamo menzionato l’evento di estinzione di massa avvenuto nel Devoniano Superiore, evento che, avevamo detto, ha spazzato via anche gruppi di vertebrati molto specializzati e differenziati, come i placodermi.
Ho notato che, e ne avevo pochi dubbi, questa importante estinzione di massa non è molto nota al pubblico, forse ancora meno di quella di fine Ordoviciano (di cui ho parlato ampiamente qui, qui e qui).
Dunque ho deciso che, prima di parlare del Carbonifero in Italia, è opportuna fare una mini serie di posts sull’estinzione di fine Devoniano.
Sarà una serie breve e in cui vedremo molto brevemente e a grandi linee cosa è successo, i gruppi maggiormente colpiti, le cause e le conseguenze, sperando di riuscire alla fine ad avere una visione globale abbastanza chiara e completa e a collegarla con il successivo periodo Carbonifero.

C'era una volta in Italia: La Carnia e il Devoniano che verrà

Il Devoniano è famoso per essere stato uno dei periodi più floridi da quando la vita è apparsa sul nostro pianeta.
Se avete mai visto un disegno o un diorama rappresentate un ambiente marino devoniano, vi saranno sicuramente rimasti impressi gli enormi placodermi corazzati, o i bizzarri squali con le spine, oi primi paesaggi dominati dalle foreste.
Ho parlato in vari post di animali del Devoniano, che per quanto riguarda i vertebrati fu davvero un perido importante, in cui si verificò, per esempio, l'estinzione di gran parte degli "agnati",  la radiazione dei condritti e la comparsa dei tetrapodi.

Ma, come ho tentato di farvi vedere nei precedenti post, non c'è bisogno di fare chissà quale viaggio verso mete lontane per vedere strati e fossili di questi momenti remoti.
Anche in Italia, spero non abbiate mai avuto dubbio alcuno, esistono strati del Devoniano.

Splendido disegno di un paesaggio subacqueo devoniano. By Julius Csotonyi

Nuova filogenesi dei cyathaspididi

Sono cosciente che certi post diciamo "di nicchia" possono interessare a pochi.
Tuttavia spesso in questo blog ho parlato degli "agnati", del loro significato evolutivo, di ciò che sappiamo della loro ecologia e della loro distribuzione geografica e temporale.
Ritengo dunque importante, per chi ne fosse interessato, accennare a questo nuovo studio di Lundgren e Bloom (2013), dell'Università di Uppsala, sulle relazioni filogenetiche all'interno dei cyathaspididi.

Cyathaspidiformes è un gruppo di heterostraci, di cui ho già parlato abbondantemente qui, caratterizzato da una particolare tipo di ornamentazione delle creste longitudinale delle scaglie, che possessono margini crenulati, e dal possesso di una corazza dorsale costituita da un solo grosso piastrone (a differenza dell'altro grande gruppo di heterostraci, Pteraspidiformes, che invece presenta divestre piastre nella parte cefalica).

All'interno di Cyathaspidiformes, a parte alcune forme basali, si trovano essenzialmente due ulteriori grossi raggruppamenti, Cyathaspididae e Amphiaspididae. Del secondo abbiamo parlato qui, ma essendo un gruppo molto derivato, endemico e limitato temporaneamente, viene solitamente studiato come gruppo a se stante. Questo post, così come lo studio di Lundgren e Blom (2013), ci concentreremo su Cyathaspididae.

Anglaspis, un cyathaspidide, by Sefano Broccoli

Diania cactiformis, l'evoluzione degli artropodi e la perdita dello scettro

In uno scambio di battute con il gentile utente Robo relativo al post su Kootenichela, avevamo parlato dei lobopodiani, della loro posizione filogenetica e del ruolo che essi possono aver ricoperto nell’evoluzione degli artropodi moderni.
In particolare, avevamo menzionato Diania cactiformis, un bizzarro esserino proveniente dal lagerstatte di Chengjiang, ritenuto essere uno dei parenti più prossimi degli artropodi.

I lobopodiani sono un gruppodi piccoli animali vermiformi, caratterizzati dal possesso di numerose appendici pari, segmentate, poste ventro-lateralmente, a dar loro la parvenza di un attuale onicoforo.


Molto diffusi nel Cambriano essi si estinsero probabilmente nel Carbonifero, anche se dalla fine del cambirano in poi i loro fossili si fanno molto rari e non conosciamo la reale biodiversità di questo gruppo in questo lasso di tempo.
Giacimenti famosi per la loro fauna a lobopodiani sono Burgess Shale e Chengjiang, di cui ho già parlato qui e qui, anche se per altri motivi.
Molti studi (Hou & Bergstrom 1995; Budd 2001; Liu et al., 2008; Ma et al., 2009) si sono concentrati sulle possibili relazioni di questi animali, considerandoli importanti per capire l’origine degli attuali panartropodi (Tardigrada, Onychophora e Arthropoda) .
Il caso ha voluto che due giorni dopo la discussione tra me e Robo, circa due settimane fa, venisse pubblicata proprio la ridescrizione di questo animale (Ma et al., 2013), con annesse nuove ipotesi filogenetiche.
Questo post è dunque dedicato a Robo e alle nuove scoperte su Diana cactiformis.

Ricostruzione di Diania cactiformis. Da Ma et al., 2013

Come costruire una tartaruga (Lyson et al., 2013)

Il relazione al mio ultimo post sui predatori di tartarughe, vi segnalo questo bell'articolo sull'evoluzione del "guscio" delle tartarughe, pubblicato recentemente sulla rivista Current Biology da un folto team di studiosi (Lyson et al., 2013).

All'articolo è legato anche una bellissimo video animato in 3d, sempre degli stessi autori.
Lo trovate sotto la traduzione dell'abstract

Lyson, T. R., Bever, G. S., Scheyer, T. M., Hsiang, A. Y.,  and J. A. Gauthier. 2013.
Evolutionary Origin of the Turtle Shell.   

The origin of the turtle shell has perplexed biologists for more than two centuries. It was not until Odontochelys semitestacea was discovered, however, that the fossil and developmental data could be synthesized into a model of shell assembly that makes predictions for the as-yet unestablished history of the turtle stem group. We build on this model by integrating novel data for Eunotosaurus africanus—a Late Guadalupian (~260 mya) Permian reptile inferred to be an early stem turtle. Eunotosaurus expresses a number of relevant characters, including a reduced number of elongate trunk vertebrae (nine), nine pairs of T-shaped ribs, inferred loss of intercostal muscles, reorganization of respiratory muscles to the ventral side of the ribs, (sub)dermal outgrowth of bone from the developing perichondral collar of the ribs, and paired gastralia that lack both lateral and median elements. These features conform to the predicted sequence of character acquisition and provide further support that E. africanusO. semitestacea, and Proganochelys quenstedti represent successive divergences from the turtle stem lineage. The initial transformations of the model thus occurred by the Middle Permian, which is congruent with molecular-based divergence estimates for the lineage, and remain viable whether turtles originated inside or outside crown Diapsida.

I predatori della preistoria Ep. 5: una dieta a base di tartarughe

Quanti di noi possiedono come animali domestici delle tartarughe?
Io personalmente no, ma conosco molte persone che ce l'hanno, soprattutto nei terrari, e devo dire che ogni volta che vado a trovarli passo molto tempo a osservare questi curiosi animali, lenti e imbranati ma sicuramente simpatici e spesso sorprendentemente socievoli.
Le tartarughe fanno solitamente simpatia a tutti e sono da sempre simbolo di longevità, calma e saggezza.

Recentemente mi è capito di prendere in mano una tartarughina d'acqua dolce: spaventata, si è subito ritirata nel suo duro carapace, forte e sicura della sua corazza. 
In quel momento mi è venuta una domanda: come mai questi rettili possiedono un sistema di difesa tanto complesso quanto efficace? Da chi devono proteggersi le tartarughe?
Così, ho iniziato a scartabellare nella mia biblioteca digitale e mi sono imbattuto in diversi articoli sull'ecologia delle tartarughe e sul ruolo che esse hanno avuto negli ecosistemi del passato e del presente).

Ma tra tutti, un articolo mi ha particolarmente colpito, perchè esso rappresenta anche un ottimo spunto per un post sulle relazioni tra prede e predatori.
E di questo parliamo oggi, nel quito episodio della serie "I predatori della preistoria": dunque, esistono tracce fossili che testimonino casi di predazione su tartarughe? La risposta è, ovviamente, si.

Si salvi chi può! Ma sarà sufficiente?

Kootenichela deppi, un artropode hollywoodiano.

Scusate miei cari lettori che aspettavate un’altra puntata de “I predatori della preistoria” ma se permettete vorrei parlare di qualcosa di molto, molto più interessante (ovviamente dal mio punto di vista).
E poche cose mi interessano più dei fossili del Cambriano (solo gli “agnati”, direi).
David Leeg, ricercatore all’Imperial College di Londra, descrive i resti di Kootenichela deppi, un nuovo artropode proveniente dai famosi depositi cambriani della British Columbia, in Canada, e più precisamente dalla Stephen Formation, nel Kootenay National Park.
Il nome della specie,  K. deppi, è in onore di…Johnny Deep, proprio lui. 
E per quale motivo?  
Semplice, basta guardare le chele di Kootenichela, letteralmente “Chela di Kootenay”, per capire il motivo di questa scelta. 
Le chele, come espressamente dichiarato dall’autore, ricordano le forbicione di Edward Mani di Forbici, celebre personaggio interpretato dal magistrale attore statunitense.


I predatori della preistoria ep. 4: Shark attack!

Il ruolo degli squali nell’immaginario collettivo è, forse da sempre, collegato al loro perfetto adattamento per la predazione in ambiente acquatico. 
La stragrande maggioranza degli squali attuali si alimenta cacciando altri animali e sovente nei documentari vengono mostrate le tecniche di predazione di questi affascinanti animali.
Tralasciando il lato negativo della medaglia, che ha portato alla nascita in vari casi di vere e proprie fobie verso gli squali, immaginati come spietati cacciatore che non aspettano altro che attaccare poveri bagnanti indifesi, gli adattamenti anatomici che questi condritti hanno evoluto nel tempo li hanno resi indubbiamente tra gli animali più efficienti dal punto della predazione, tanto che la loro anatomia non è cambiata nel tempo in maniera esageratamente significativa. Si sa, squadra che vince non si cambia.
Ma guardando al mondo del passato, si può scoprire qualcosa di nuovo e inaspettato anche parlando di predazione negli squali. 

I predatori della preistoria ep. 3: gli indistruttibili psammosteidi e la forza della disperazione.

I danni da ferita sono piuttosto frequenti sulle corazze degli heterostraci psammosteidi (gruppo che abbiamo incontrato qui).
Sono stati trovati centinaia di fossili di questi pesci corazzati che presentano segni di ferite, morsi, graffi, tessuti rigenerati.
Lebedev et al., 2009 passano in rassegna vari segni di danno presenti su vari esemplari di psammosteidi dell’area baltica, in particolare Estonia, Lettonia, Ucraina e Russia. Essi sono riferiti a ben nove specie di psammosteidi, ascrivibili a cinque generi diversi (Tartuosteus, Pycnosteus Ganosteus, Psammolepis e Psammosteus).
Tra questi, il genere più colpito, non sappiamo il motivo, forse perché più comune, risulta essere Psammolepis

Le estese piastre che costituivano la parte cefalica di questi animali rappresentavano una protezione importante, spesso vitale. Ed è proprio qui che gli esemplari giunti fino a noi presentano nella maggior parte delle volte i segni di ferita. Particolarmente colpita è la zona dorsale e le proiezioni laterali delle piastre branchiali.


Esemplare di psammosteide con evidenti segni di morso (margine strappato) sulla piastra branchiale. Immagine da Lebedev et al., 2009

Romeosaurus, un nuovo mosasauro dall'Italia

Paleonews italica fresca fresca!

Palci et al., (2013) descrivono due nuove specie di mosauri sulla base di cinque esemplari rinvenuti sulle montagne a Nord di Verona.
Gli esemplari sono in buono stato di conservazione e il loro studio ha permesso di descriverli nel dettaglio, riscontrando vari caratteri distintivi (come ad esempio l'estensione della sutura tra mascellare e premascellare circa sopra la posizione del terzo dente) tale da permettere di distinguerli da tutti gli altri mosasauri noti, e istituire un nuovo genere e due nuove specie, Romeosaurus fumanensis e Romaeosaurus sorbinii.

Ricostruzione del cranio di Russellosaurus. Disegno da http://dinomaniac.deviantart.com/
I resti provengono da depositi marini risalenti al Cretaceo superiore, in particolare all'interno tra Turoniano inferiore - Santoniano inferiore, circa 92 - 85 milioni di anni fa.
Oltre ad aggiungere due nuovi taxa al record fossile mosasauroide, la scoperta di Romaeosaurus è risultata importante dal punto di vista filogenetico. Le analisi di Palci et al., hanno evidenziato come Romaeosaurus cada in posizione affine a Russellosaurus,  un mosasauro del Turoniano del Nord America. Inoltre, essi risultano affini a Yaguarasaurus, un mosasauro primitivo della Colombia, sempre Turoniano.
In base alle loro analisi, Palci et al. istituiscono un nuovo clade di mosasauri, Yaguarasaurinae, includente dai tre generi sopra detti, rappresentante un gruppo di mosasauroidi, più vicini a generi come Plioplatecarpus e Tylosaurus che non a Mosasaurinae, differenziatosi nelle prime fasi della storia di questi bizzarri rettili marini.

Tylosaurus
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Bibliografia: 

- Palci, A., Caldwell, M. & Papazzoni, C. 2013 
A new genus and subfamily of mosasaurs from the Upper Cretaceous of northern Italy. Journal of Vertebrate Paleontology 33(3): 599-612

I predatori della preistoria Ep.2 Chi ha ferito Larnovaspis?

Eccoci al secondo episodio della mini serie sulle interazioni (supportate da dati) tra preda/predatore nel passato.
In questo post affronteremo la nostra prima indagine, nel tentativo di risolvere una specie di "crimine preistorico".
Questo primo caso ci fa tornare indietro nel tempo, precisamente nel Devoniano inferiore, circa 415 milioni di anni fa, in Ucraina.
E’ a questo periodo che risale un esemplare di Larnovaspis kneri, un heterostraco, rinvenuto con strani segni sulla parte sinistra della piastra dorsale.

Larnovaspis kneri. A) Visione dorsale B) Visione ventrale C) Ingrandimento della traccia di lesione più grande Scala A-B= 1cm. Scala C= 5mm. Da Lebedev et al., 2009

I predatori della preistoria. Episodio 1: un'indagine fatta con...

Lo studio delle relazioni tra predatori e prede è uno degli argomenti più importanti nella biologia degli animali attuali. Ma, con le dovute precauzioni, può diventare un campo di indagine anche per quanto riguarda gli animali del passato.
Dico con le dovute attenzioni, poichè esso deve essere fatto senza speculare su aria fritta ma basandosi su fatti. 
E questi fatti sono i fossili.

Tipi di tracce usate per questo campo di ricerca sono solitamente tre, più o meno informative a seconda dei casi.
(Ovviamente sto parlando dei vertebrati. Nel mondo degli invertebrati vi sono numerosi tipi di tracce, come le incrostazioni che si ritrovano su molte conchiglie, tracce di parassiti, tracce di organismi fossori, etc.)

La prima e più ovvia traccia di interazione preda/predatore è il rinvenimento di contenuti stomacali all’interno del predatore (o del vegetariano, nel caso di relazione vegetariano/vegetale).
Un caso noto è, per esempio, il ritrovamento di scaglie di pesce e di ossicini di lepidosauro all’interno dello stomaco del nostro Scipionyx
Questi ritrovamenti ci dicono che Scipionyx ha effettivamente mangiato questi animali, dandoci un’idea concreta della dieta dell’animali.
O come non menzionare i numeri esemplari di Xiphactinus rinvenuti con all'interno del corpo i resti delle loro prede.
In teoria questo primo tipo di traccia fossile fornisce dati diretti di interazione preda/predatore, tuttavia questi fossili sono molto, molto rari.
Inoltre, attenzione a prendere questi ritrovamenti come dogmatici: non sempre è chiaro se il contenuto stomacale all’interno del fossile è tale o rappresenta il risultato di sovrapposizione di diversi animali a causa di processi tafonomici.

L'ultima cena! Il famosissimo Xiphactinus di Sternberg, rinvenuto con all'interno dello scheletro un altro grande pesce. Immagine da Wikipedia

Coming soon: i predatori della preistoria

Negli ultimi tempi ho avuto la fortuna di poter collaborare con alcune scuole per fare dei laboratori sui fossili ai bambini delle classi terze elementari ed è sempre un'esperienza piacevole. Ai bambini piace vedere i fossili, toccarli, capire come lavora chi li studia, capire che si tratta di resti di antichissimi animali che ce l'hanno fatta, contro mille imprevisti, a giungere fino a noi sotto forma di roccia.
Tuttavia, alla piacevolezza della curiositas giovanile, spesso si sovrappone un senso di amarezza quando sento le risposte "ma io l'ho visto in un documentario", oppure "sul mio libro c'è scritto così".

In un epoca in cui spopolano film, documentari, libri, cartoni animati, scene dipinte e mostre, spesso diventa difficile carpire il limite tra scienza e immaginazione, tra fantastico e reale, tra ipotesi basati su dati e speculazioni.
E ciò colpisce non solo i più piccoli, ma anche gli adulti.
Casi "scottanti" in cui mi sono imbattuto ultimamente hanno riguardato le dimensioni di alcuni animali e le interazioni (spesso conclamate per simpatia o ossessione verso l'uno o l'altro animale) tra preda/predatore.
 Sembra che certi argomenti siano diventati appannaggio di tutti; tutti possono dire la loro e ipotizzare/speculare le più improbabili situazione anche senza la benchè minima conoscenza dell'argomento.

Eppure, anche se molti non se ne accorgono (o non vogliono), anche su questi argomenti si può fare scienza. Si deve fare scienza, con criterio, partendo dai dati e analizzandoli secondo metodi rigorosi e non in base alle proprie opinioni.

In questa mini serie, vedremo alcuni esempi di come, attraverso lo studio di particolari esemplari o tracce fossili, è stato possibile fare ipotesi su plausibili interazioni tra prede e predatori nel passato.

Presto, su Paleostories!

C'era una volta in Italia: nenia silurica

C'è un qualcosa di misterioso nel Siluriano.
Questo periodo, infilato tra un grande evento di estinzione di massa e uno dei più floridi periodi del Paleozoico (il Devoniano), viene sistematicamente snobbato dalla divulgazione scientifica popolare, come se nel Siluriano non fosse successo niente..
E' vero, guardando a livello globale gli affioramenti siluriani non sono così comuni come quelli di altri periodi, soprattutto per quanto riguarda alcuni ambienti (ad esempio i depositi marginali costieri o estuarini), anche se abbiamo zone in cui esso affiora con grande estensione (ad esempio in Gran Bretagna). 
Se poi consideriamo che il Siluriano è durato solo 20 milioni di anni circa (fino al Cenozoico, nessun periodo dura così poco), la faccenda si fa molto triste.
Eppure nel Siluriano sono successe tante cose, le prime piante terrestri hanno cominciato timidamente ad espandersi, gli artropodi hanno colonizzato la terraferma, vari gruppi di vertebrati hanno subito un momento di radiazione significativo.
Ma tutto questo sembra non bastare per far avere al Siluriano lo spazio che si merita nella letteratura popolare...

Disegno di una possibile scena di vita in un mare del siluriano. Da http://www.karencarr.com
Questa premessa/lamento introduce il tema del post di oggi, che, riprendendo la serie iniziata tre post fa, introduce alcuni dei più importanti siti paleontologici italiani.
Esatto, sto dicendo che, nonostante tutto, anche in Italia abbiamo un pò (giusto un pò) di Siluriano.

Euphanerops e le mille strade dell'evoluzione

Tempo fa avevo scritto una serie di post sull'evoluzione dei cyclostomi, sui taxa fossili attualmente noti, sulle loro caratteristiche più peculiari.
Nell'ultimo post, avevo presentato Euphanerops e Jamoytius, due curiosi gnathostomi stelo, a metà strada (morfologicamente parlando) tra lamprede e anaspidi.
Per chi di voi non si ricordi, invito a rileggere almeno questo post.

L’evoluzione dei vertebrati con mascelle dai loro antenati senza mascelle rappresenta uno dei momenti più importante della storia evolutiva dei vertebrati.  Durante questo episodio, sono avvenuti numerosi episodi di cambiamento genetico, morfologico e dello sviluppo.
Oggi, i vertebrati senza mascelle, rappresentati solo da missine e lamprede, sono in numero assai minore rispetto ai vertebrati con mascelle (“pesci” e tetrapodi). Inoltre, essi sembrano veramente distanti a livello morfologico.
Capire come sono stati acquisti i tratti chiavi dei vertebrati attuali è possibile solo guardando il record fossile, che può colmare il gap creato dalla distanza morfologica dei gruppi di vertebrati rimasti al giorno d’oggi.
Un nuovo capitolo di questa emozionante avventura è stato aggiunto oggi grazie alla ridescrizione di Euphanerops, un vertebrato basale del Devoniano del Canada, filogeneticamente posto molto vicino al punto di separazione tra cyclostomi e gnathostomi.


Esemplare fossile di Euphanerops

Tetrapodomorphi in carne e ossa

Se vi doveste trovare a Milano il 17 aprile, quale migliore occasione per sentire una grande paleontologa come Jennifer Clack (a cui è dedicato un animale di cui ho parlato qui) esporre i suoi ultimi lavori sui tetrapodomorphi e l'origine del movimento in ambiente terrestre? Imperdibile.
La trovate alle 10.30 nell'aula BS del dipartimento di biologia dell'Università degli Studi di Milano.

Ah, quello che introduce sono io..ma potete benissimo venire 10 minuti più tardi che tanto non vi perdete niente.

Nel pomeriggio, altri due interessantissimi interventi, uno del prof. Andrea Tintori sull'origine dei rettili marini, l'altra sempre della professoressa Clack riguardante l'estinzione di fine Devoniano,il "Romer Gap", ossia quell'arco di tempo (circa 15 milioni di anni) dopo l'estinzione al limite Devoniano/Carbonifero in cui si trovano pochissimi fossili di vertebrati terrestri, e la ripresa dopo tale crisi.

Ripeto: imperdibile!


Se avete voglia, magari per prepararsi un pochino potete rileggere la mini serie legata ai tetrapodi basali, qui, qui e qui (e volendo anche qui).

Occhio alle spine: A tu per tu con gli acanthodi (Parte ultima)

Questo post chiude la serie sugli acanthodi che ho iniziato diversi post fa. Inizialmente abbiamo visto i caratteri anatomici generali degli acanthodi e poi ci siamo addentrati nei diversi gruppi, da Climatiiformes ad Acanthodiformes, passando per Ischnacanthiformes. Di ogni gruppo abbiamo visto le caratteristiche morfologiche principali, l'estensione temporale e geografica, le possibili ipotesi ecologiche.
Ho voluto passare in rassegna i vari gruppi di acanthodi per prepararci meglio a questo post.
Mi è capitato recentemente di partecipare ad un incontro sul tema dell'evolzione, in cui si è parlato molto di amminoacidi, geni, codificazioni, e (ahimè) poco dei fossili e della storia della vita.
E invece i fossili sono importanti, soprattutto se parliamo di evoluzione.
Quando guardiamo un gruppo di organismi, oltre che soffermarci sulle sue caratteristiche anatomiche, è importante inquadrarlo in un contesto evolutivo, giacchè le strutture anatomiche che noi analizziamo sono il frutto di adattamenti, modifiche, retaggi, dipendenti dal fattore tempo.
Senza i fossili non potremmo considerare l'evoluzione morfologica nel tempo, la nostra conoscienza della biodiversità e della "biodiversificazione" sarebbe alquanto limitata.
Dunque, è assolutamente fondamentale integrare la nostra conoscienza della vita del passato.
Senza fossili, non avremmo alcuna idea dell'evolzuione dei caratteri, di come gli animali si sono modificati nel tempo, di come siamo giunti alle forme di oggi dalle forme di ieri.
Tuttavia, per comprendere al meglio l'evoluzione di un gruppo di viventi, è necessario conoscerli in dettaglio. Ed è per questo motivo che ho voluto prima fare tre post "anatomici" e poi concludere con la filogenesi.

Coming Soon primaverile

Si avvicina il week end di pasqua e dunque anche alcuni miei impegni che mi terranno lontani da casa.
Ma non preoccupatevi, ci attende un inizio aprile assolutamente gustoso.


Nelle prime settimane dopo le vacanze dunque finire il nostro viaggio nel mondo degli acanthodi (post già pronto, da rileggere), per scoprire le ultime frontiere della ricerca riguardo l'origine degli gnathostomi.

Parlermo anche di un bizzarro gruppo di rettili planatori triassici e degli adattamenti che consentono anche oggi ai lacertidi lo sviluppo del volo planato.

E in seguito ritorneremo indietro nel tempo, nella nostra amata paleoitalia, per scoprire altre importanti località fossilifere nostrane e i loro tesori.

Ad aprile, dunque.

Buone vacanze

Occhio alle spine: A tu per tu con gli acanthodi (Quarta Parte)

Dopo la pausa chimeroide, riprende la nostra spedizione all'interno del misterioso mondo degli acanthodi, i pesci con le pinne spinose, alla scoperta dei loro tratti più peculiari e del loro ruolo nella nostra capacità di comprendere l'evoluzione dei vertebrati.
Dopo i Climatiiformes e gli Ischnacanthiformes, ecco arrivati all'ultimo macrogruppo di acanthodi: Acanthodiformes.

Gli acanthodiformes furono il gruppo di acantodi di maggior successo.
Essi sono facilmente riconoscibili per la presenza di una sola pinna dorsale, ovviamente spinata, per la mancanza di denti, per la presenza di gill rakers ben sviluppati e dell'osso extramandibolare.
(Gill rakers = proiezioni osseo o cartilagineee che si dipartono dall'arco branchiali e che servono a impedire la fuga delle particelle di cibo dalle branchie)

Il primi acanthodiformi compaiono nel Siluriano superiore, ma ciò che sappiamo di loro deriva quasi esclusivamente da scaglie e reperti molto poco preservati.
I primi taxa decentemente noti provengono dal Devoniano inferiore e si tratta di forme che presentano spesso ancora tratti primitivi, come la presenza di un paio di pinne prepelviche e scaglie del cranio allargate  (Hanke, 2008). Queste vengono generalmente raggruppate in un gruppo denominato Mesacanthidae, e tra di esse troviamo ad esempio Promesacanthus e Triazeugacanthus, del Canada, e il ben conosciuto Mesacanthus della Scozia

Mesacanthus

Come risolvere un mistero: il nuovo volto di Helicoprion

Su questo blog mi è capitato di parlare di avvenimenti misteriosi in campo non strettamente paleontologico (non cito il post perchè sono cose poco importanti, e un pò mi dispiace che a livello statistico sia uno di quelli che è statao più letto in assoluto). 
Al giorno d'oggi sembra che l'esistenza di creature misteriose, rievocazioni di antiche leggende, avvistamenti di celebri sopravvissuti e di nuovi venuti, suscitino un interesse davvero ampio tra il grande pubblico.
E spesso si invoca l'aiuto della scienza, per tentare di abbattere o confermare questa o quella leggenda.

Ma la scienza non fa questo, o meglio, la scienza è un'altra cosa. La scienza parte dai dati, li analizza, si pone delle domande, cerca di testare delle ipotesi, trova dei risultati e procede nel tempo, affinando le sue metodologie, a volte confermando ipotesi, altre volte ribaltando completamente le antiche idee.
Ed è proprio su questa scienza che si basa la storia di oggi.

Tra i grandi misteri (passatemi il termine) della paleontologia vi è senza dubbio la storia di un grande condritto fossile, conosciuto per pochi resti incompleti (anzi, quasi interamente per i suoi denti) la cui forma e natura hanno scatenato le più fantasione e bizzarre ipotesi. 
Già il suo nome, Helicoprion, o "squalo dai denti a spirale", fa aggrottare la fronte a chi tenta di immagine come uno squalo possa avere una bocca del genere, soprattutto considerando che l'unica cosa che possediamo di questo animale sono, appunto, solo i suoi denti e pochissimo altro (ossia, qualche frammento di mandibola).

Olotipo di Helicoprion

Occhio alle spine: A tu per tu con gli acanthodi (Teza Parte)

Continua la nostra rassegna sugli "acanthodi": dopo aver visto le loro caratteristiche generali nella prima parte, e aver incontrato i climatiiformi nella seconda, oggi facciamo la nostra conoscienza con un'altro gruppo di questi bizzarri animali: Ischnacanthiformes.

La caratteristica distintiva principale di Ischnacanthiformes (dal Greco, "spine sottili") è la presenza di robuste piastre mascellari (per gli specialisti, "piastre gnatali") munite di file di denti fermamente fuse con su di esse. Queste speciali piastre gnatali costituivano la superficie di morso della bocca, formata per la restante parte da tessuto cartilagineo o da altre porzioni d'osso meno robuste. 
Gli Ischnacanthiformi non sono un gruppo abbastanza ben conosciuto, con poche specie descritte e non un grandissimo numero di esemplari conservati nella loro totalità.
Le prime tracce di questo gruppo risalgono al Siluriano Medio - Superiore, ma si tratta per lo più di scaglie e frammenti isolati. Ciò che sappiamo dell'anatomia di questi animali lo dobbiamo in larga parte alla fauna del Devoniano inferiore inglese e canadese ben preservata e con un buon numero di taxa descritti in dettaglio.
Gli ultimi ischnacantiformi provengono dal Devoniano superiore, come l'australiano Grenfellacanthus, e si suppone che verso la fine di questo periodo il gruppo sia andato incontro ad estinzione, per cause ancora ignote.

Ischnacanthus

Occhio alle spine: A tu per tu con gli acanthodi (Parte seconda)

Nello scorso post ho cercato di descrivere in maniera generale gli acanthodi, introducendo il loro importante significato filogentico e le principali tra le loro caratteristiche anatomiche.
Come ho detto all'inizio di quel post, non è facile, attualmente, parlare degli acanthodi: le ultime scoperte stanno facendo traballare ciò che pensavamo di sapere sulle affinità di questo gruppo di pesci, sia per quanto riguarda la monofilia di Acanthodii (oggi più che mai dubbia), sia per quanto riguarda l'affinità di questo gruppo e dei suoi taxa con i due cladi principali di vertebrati gnathostomi, Osteichthyes e Chondrichthyes.
Dunque, ammetto che non è facile per me parlare di queste cose in maniera generale, ma non voglio tediare nessuno con dettagli e concetti che richiederebbero una buona conoscienza della letteratura pubblicata su questi animali.
Per questo, nei prossimi (tre) post, tratterò gli acanthodi alla vecchia maniera. 
Nel post che chiuderà la serie, quando saremmo diventati un pò più forti sull'argomento, parlerò delle nuove scoperte e di come invece bisogna analizzare questo grado nel contesto dell'evoluzione dei vertebrati.

Oggi incontreremo il primo dei tre gruppi di acanthodi che vi avevo accennato la volta scorsa: Climatiiformes.

Sotto il nome di Climatiiformes una volta era definito un clade di acanthodi caratterizzati dalla presenza di  spine intrmedie tra le pinne pettorali e quelle pelviche, dall'assenza dell'osso extramandibolare, dalla presenza di un palatoquadrato allungato e senza articolazione otica, di alcune ossa (di cui una molto grande e le altre piccole e allungate) a protezione delle branchie, e di un cinto pettorale rafforzato da piastre dermali.

Disegno del cinto e delle spine pettorali di Climatius
Recentemente, alcune analisi filogenetiche (Brazeau 2009, Davis et al. 2012) hanno messo in discussione la monofilia di tale gruppo, e oggi il termine climatiiformi si usa per lo più inteso come grado.
Qui, tuttavia, parlerò dei climattiformi in maniera generica, come se fossero ancora un gruppo unico. Ovviamente, però, vedremo cosa differenziano i vari sottogruppi, prendendo come esempio alcuni taxa fondamentali.