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Le Cronache di Placodermata Ep5: Petalichthyida, tesoro nascosto da riscoprire

Continua il nostro viaggio attraverso i vari gruppi di placodermi. Oggi vedremo uno dei gruppi io ritengo tra i più interessanti, son solo perché è effettivamente l’oggetto del mio progetto di ricerca, ma soprattutto per la loro situazione di taxa negletto riportato alla ribalta grazie alle recenti investigazioni sui vertebrati paleozoici, che ne hanno sottolineato l’importanza per lo studio dell’origine dei vertebrati con masclle. Il gruppo in questione è Petalichthyida, clade che comprende placodermi caratterizzati dalla presenza di due paia di piastre paranucali, di canali sensoriali che si aprono in pori (invece che come scanalature tra le scaglie, come nella maggioranza degli altri placodermi) e che presentano un pattern tipico (Figura sottostante), con la linea sensoriale sopraorbitale che converge verso la piastra nucale insieme alla linea sensoriale posteriore, formando talvolta una sorta di X, e una linea sensoriale principale allungata posteriormente (Zhu 1991).

Morfologia craniale dei due petalichthyidi più conosciut, Lunaspis e Macropetalichthyis, con i evidenza le cararistiche tipiche dei petalicthyidi. Credits by PaleoStories.

Al contrario di quello che abbiamo visto ad esempio per i rhenanida, per cui sono stati descritti solo pochi generi, il record fossile dei petalichthyidi è abbastanza ampio. Fino ad ora sono stati infatti descritti 17 generi, distinti principalmente per la morfologia delle piastre cefaliche e del percorso dei canali sensoriali. Resti di petalichthyidi sono stati trovati in diverse parti del mondo, dalla Cina alla Siberia, dalla Germania al Nord America, con un range temporale che va dal Siluriano superiore fino al Devoniano superiore e un picco di diversità nella parte finale del Devoniano inferiore (in particolare nell’Emsiano). Il taxa più antico fin’ora è rappresentato dal cinese Diandongpetalichthyis (Siluriano superiore/Devoniano inferiore), mentre il più recente dal tedesco Epipetalichthys (Devoniano superiore – Frasniano).

Distribuzione temporale dei principali generi di petalichthyidi. Modificata da Zhu and Wang 1996
Nonostante questo buon numero si specie descritte, i petalichthyidi non sono un gruppo conosciuto in gran dettaglio, come si potrebbe pensare, ma anzi rimangono uno dei più oscuri tra i placodermi.

Microbrachius e la ricerca del nuovo. Parte 3: è tutto oro quel che luccica?

Ecco la terza e ultima parte della miniserie su Microbrachius e le modalità di riproduzione dei vertebrati (Qui la prima e seconda parte). Scusate se ci ho impiegato tanto e so che da quando ho iniziato il dottorato la quantità di post del blog è scesa, ma sono davvero impegnato la maggior parte delle mie giornate nell’ultimo mese ho avuto molte cose da preparare (in breve tempo potreste forse avere qualche post basato su articoli dell’autore del blog).

PREMESSA: questo post è basato sulle mie opinioni personali su quello che riguarda la scoperta di Microbrachius e le implicazioni evolutive invocate da Long et al. 2014 e in generale dalle riviste di divulgazione scientifica. Non è frutto di nessun contro-lavoro o analisi, anche se molte delle cose che scriverò sono derivate da ricerche e discussioni (anche con gli autori dell’articolo), che ho fatto nelle ultime settimane.

Dunque, ci eravamo lasciati con quelle che erano le conclusioni presentate da Long et al. (2014) riguardo alle implicazioni della scoperta di organi per la fertilizzazione interna del placoderma Microbrachius. La presenza di strutture simili ai claspers degli squali in questo taxa, appartenente al gruppo degli antiarchi, amplia la presenza di questo tipo di organi riproduttivi modificati all’interno della diversità placodermata, dove erano già stati descritti nei ptyctodontidi e in alcuni arthodiri. Essendo che Antiarchi nelle ultime analisi viene posizione alla base del clade comprendente i vertebrati con mascelle, Long et al. concludono che la fertilizzazione interna, probabilmente con l’utilizzo di organi copulatori pari, è da considerarsi caratteristica primitiva per questo gruppo, persa secondariamente in crown gnathostomata e poi evoluta di nuovo in maniera indipendente nei condritti, in vari teleostei, nei celacanti e nella maggior parte dei tetrapodi.

Microbrachius e la ricerca del nuovo. Parte 2: organi riproduttivi fossili e la complessità della copulazione

Second post della mini serie su Microbrachius e sulle modalità di fertilizzazione dei vertebrati. 
Nello scorso post abbiamo visto quali sono i diversi modi in cui avviene la copula e la fecondazione nei vari gruppi di vertebrati attuali. Per ricapitolare, abbiamo notato come la fecondazione esterna sia presente nella maggior parte dei vertebrati acquatici (cyclostomi, quasi tutti i teleostei e moltissimi anfibi), mentre sulla terraferma, anche a causa della presenza di guscio solito, è preferita la fecondazione interna, utilizzata da rettili, uccelli e mammiferi. A questo si aggiungono varie eccezioni, con alcuni osteitti (celacanti, alcuni teleostei), pochi anfibi e tutti i condritti, che possiedono fecondazione interna per evoluzione adattativa (convergenza).
Con queste basi, abbiamo giustificato l’ipotesi storica che vede la feconda interna come un prodotto derivato dalla fecondazione esterna, ritenuta condizione primitiva per i vertebrati. Abbiamo però sottolineato come la presenza di fecondazione interna in gruppi di vertebrati non filogeneticamente legati tra di loro (con l’utilizzo di organi diversi a seconda del gruppo), rappresenta un segnale importante che permette di ipotizzare come l’acquisizione di questo tratto, per necessità adattative, sia possibile e non così raro.
Con queste premesse, oggi andiamo a vedere quali indicazioni ci fornisce invece il record fossile per quanto riguarda le modalità di riproduzione dei vertebrati, in particolare di quei gruppi oggi estinti ma fondamentali per ricostruire la storia evolutiva degli gnathostomi, come ad esempio agnati fossili e placodermi.

Microbrachius e la ricerca del nuovo. Parte 1: la fertilizzazione nei vertebrati attuali

In questi ultimi anni i placodermi stanno conquistando una posizione di rilievo negli interessi della comunità scientifica. Riviste di grande impatto come Nature hanno spesso dato ampio spazio a pubblicazioni relative a questo gruppo di stem gnatostomi, così importanti dal punto di vista della nostra conoscenza sull’evoluzione dei vertebrati  e il passaggio da animali senza mandibole a mandibolati. Qui su Paleostories ho iniziato da poco una serie di post sui placodermi, sia perché è il gruppo di cui ora mi occupo come ricercatore, siamo perché ritengo che il loro diventare sempre più popolari non possa fare a meno dell’accompagnamento di una divulgazione accurata ma chiara e di ampia portata. Soprattutto perché può accadere che il messaggio recepito e trasmesso dai media (e a volte anche i giornali scientifici) non è del tutto fedele a quello che lo studio rivela.
E’ per questo motivo che ho aspettato che passassero un po’ di giorni prima di fare questo post. Avevo prima bisogno di fare delle verifiche e di parlarne un po’ con alcuni colleghi.
Come sicuramente qualche lettore avrà già saputo, sull’ultimo numero della rivista Nature è stato pubblicato un articolo in merito alla presenza di strutture ossee per la fecondazione interna del placoderma antiarco Microbrachius (qui l'articolo di Nature).
Essendo solo l’ultimo di una serie di placodermi con evidenze di tali strutture, la conclusione generale portata ai media (e quindi al popolo) è che ora la comunità scientifica pensa che la fertilizzazione interna sia lo status primitivo per gli gnathostomi,  con la fecondazione esterna (comunissima in tantissimi gruppi di gnathostomi fossili e attuali) derivata da questa. Tutto ciò, come si evince dall’articolo, contrasta con quanto ritenuto in precedenza, quando si diceva che il passaggio da fecondazione esterna a interna era la situazione standard per l’evoluzione dei vertebrati, e che non si poteva fare il contrario (da interna ad esterna). Questo studio, dunque, ribalta ancora una volta quelle che erano teorie storiche e radicate nella nostra mente, portando una ventata da aria nuova nella nostra mente di scienziati.
Ultimamente le riviste scientifiche e la stampa amano il nuovo, il cambiamento, la rivoluzione, il vedere vecchie credenze e dogmi cadere sotto i colpi delle nuove scoperte e tendenze. Io stesso sono un amante del nuovo, soprattutto quando tende a ribaltare visioni antiche che si protraggano per pregiudizi e falsi miti, come abbiamo visto spesso parlando dei cyclostomi e dei tetrapodi. Però, e c’è un però, non bisogna esagerare a voler trovare sempre il nuovo e il ribelle in ogni cosa. 
Questo è quello che, secondo me, è un po’ successo con questo articolo su Microbrachius, che in fondo è il tocco finale di una serie di articoli sulla riproduzione dei placodermi. 
Siccome è un discorso lungo, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni filogenetiche e evolutive, ho deciso di dedicarne una miniserie di post. Per prima cosa, andiamo a vedere quelli che sono i fatti, facendo un passo indietro e analizzando cosa sappiamo delle modalità di fertilizzazione dei vertebrati

Paleostoria dei Cyclostomi Parte 5: il ciclo vitale delle lamprede tra presente e passato

Lamprede e missine, che insieme costituiscono il clade dei cyclostomi, sono al giorno d’oggi gli unici vertebrati agnati viventi. La loro morfologia e il loro stile di vita peculiare li rende animali estremamente interessanti dal punto di vista ecologico, ma soprattutto la loro posizione nell’albero filogenetico dei vertebrati, dove essi sono sister group di gnathostomata, ne fa un gruppo chiave per la nostra comprensione dell’evoluzione dei vertebrati. 
Abbiamo visto più volte in questo blog come negli ultimi anni la nostra concezione dei cyclostomi sia molto cambiata. Essi non sono più visti come animali primitivi, le cui caratteristiche particolari sono indicative della condizione ancestrale di Vertebrata, ma anzi come un gruppo di vertebrati che ha raggiunto questa anatomia attraverso una profonda riorganizzazione del corpo (almeno nella fase adulta), con perdita di materiale genetico e regressione di caratteri, tale da farli apparire ora come un gruppo le cui caratteristiche apparentemente primitive sono invece altamente derivate. 
Nonostante ciò, i cyclostomi conservano alcuni dettagli anatomici frutto del loro essere posizionati alla base di gnathostomata, come ad esempio un corpo senza apparato scheletrico, assenza di pinne pari, alto numero di aperture branchiali, etc.. Per questo motivo, il record fossile risulta importantissimo per capire quali di queste caratteristiche si sono mantenute nei cyclostomi attuali, ed erano dunque presenti anche nell’antenato comune di tutti i vertebrati, e quali invece sono state secondariamente modificate.
Purtroppo, come abbiamo visto, il record fossile delle missine e delle lamprede è piuttosto frammentario, con diversi gap temporali tra i fossili e l’impossibilità di avere una visione temporale continua della storia evolutiva di questi animali. A questo problema ho dedicato in passato una serie di post che potete trovare qui (guardare al punto 5).
La scarsità di esemplari fossili di cyclostomi è talmente un problema, che ogni nuova scoperta riveste un’importanza fondamentale, ed è dunque con queste premesse che accolgo con grande piacere l’uscita di quest’articolo (di cui ero già a conoscenza) su nuovi reperti di lamprede fossili del cretaceo.  E c’è di più, i fossili qui descritti riguardano non solo adulti ma esemplari di tutte e tre le fasi del ciclo vitale dei petromyzontiformi! Un documento dal passato di valore straordinario. Ma andiamo con calma.

Larva (ammocete) di lampreda attuale.

Le Cronache di Placodermata, Episodio 4: i renanidi

Quello che mi piace della paleontologia e che ha sempre fatto da carburante per il mio interessante è la presenza nel record fossile di forme estremamente bizzarre e diverse rispetto a quelle che abitano il mondo a noi circostante. 
Ed è proprio questo rimanere a bocca aperta, con la fronte corrucciata, che tutt’ora costituisce un grande stimolo per lo studio del mondo del passato. 

Continuando il nostro viaggio nel mondo dei placodermi, oggi incontriamo uno dei gruppi più strani e misteriosi io abbia mai visto, che ancora oggi fa mettere le mani nei capelli a chi decide di avventurarsi nell’intricata filogenesi dei placodermi. 
Il gruppo in questione ha il simpatico nome di Rhenanida. 

Riproduzione artistica del renanide Gemuendina. Immagine da swriojas.blogspot.com

Le Cronache di Placodermata (CpD). Episodio 3: gli antiarchi

Da questo e per i prossimi 7 post ci addentreremo nella sistematica per conoscere un i vari gruppi di placodermi dal punto di vista anatomico e ecologico. Cercherò di non scendere troppo nei dettagli  pur cercando di essere specifico.  Questi post mi servono soprattutto per dare una visione d'insieme dei vari gruppi di placodermi e soprattutto fornirvi tavole e immagini che possano essere riutilizzate anche in seguito, quando molti dei taxa e dei sottogruppi di cui parlerò in questi post saranno affrontati con maggiore completezza.
Oggi cominciamo con gli antiarchi, uno tra i gruppi più famosi di placodermi ma di cui recentemente abbiamo scoperto come molte cose che pensavamo di sapere sulla loro ecologia e anatomia erano poco corrette.

Gli antiarchi erano placodermi di piccole dimensioni, di solito lungo circa una ventina di centimetri, con le forme più grandi che raramente raggiungono il metro. Sono caratterizzati da una struttura particolare della zona cefalica, che possiede un’apertura centrale in cui erano posizionati gli occhi, le narici e l'organo pineale. Inoltre, a differenza di molti altri placodermi, l’armatura cefalica è molto più piccola di quella toracica, a livello di proporzioni, a volte anche molto meno della metà.
La bocca non possiede le piastre superognathali, ma gli inferognathali si chiudono su una piastra suborbitale con un margine tagliente, a dare comunque un morso efficac.
Peculiare è anche la presenza di due piastre mediane nella zona toracica. Altra caratteristica distintiva riguarda le loro pinne pettorali, racchiuse da tessuto osseo in una sorta di corazza rigida a protezione delle pinne. In alcuni antiarchi queste erano avvolte da diverse piastre a formare una struttura unica e forse rigida, simile ad una sorta di remo, in altri invece la corazza delle pinne pettorali era segmentata, dando forse più mobilità.


Corazza dermica di Bothriolepis in visione dorsale con evidenziate le caratteristiche destintive degli antiarchi (Modificata da Denison 1978)

Gli antiarchi furono un gruppo diffusissimo, che si sviluppò probabilmente intorno al Siluriano medio-superiore, diventando molto abbondanti a partire dal Devoniano inferiore per poi estinguersi, come tutti i placodermi, alla fine del Devoniano superiore, nel momento della loro massima espansione.

Le Cronache di Placodermata (CdP). Episodio 2: anatomia "generale" di un placoderma (se così si può dire)

Secondo episodio del nostro viaggio all'interno del mondo dei placodermi. Oggi parleremo un pò dell'anatomia generale di questi animali, continuando il nostro antipasto anatomico in attesa delle portate principali.
Come abbiamo visto nello scorso post, una delle caratteristiche più distintive dei placodermi è la presenza di grosse piastre ossee che formano un’armatura cefalica e una toracica.
In alcuni gruppi (artrodiri, antiarchi, petalichthyidi e ptyctodontidi) queste due area sono articolate in modo tale da aumentare la mobilità dell’armatura cefalica. Questa mobilità è legata anche alla presenza di uno spazio, detto nuchal gap (appunto, spazio nucale), che separa lo scudo cefalico da quello toracico e che permette al primo di piegarsi, occupando in parte lo spazio nucale, e, ad esempio, aumentare l'apertura della bocca.
L’articolazione solitamente è formata dalla piastra paranuchale (la piastra più posteriore dell’armatura cefalica) e la piastra dorsolaterale anteriore (nella porzione anteriore dell’armatura toracica). In molti casi si possono osservare dei condili che segnalano il punto di attacco tra le due pistre.
La disposizione e la morfologia delle piastre della zona cefalica e toracica sono diverse a seconda dei vari gruppi di placodermi e sono uno dei caratteri più utilizzati per quanto riguarda la sistematica e la filogenesi di questi animali, insieme alle morfologia dei tubercoli delle piastre e al percorso dei canali sensoriali del sistema della linea laterale.

Anatomia generale di un placoderma, con in evidenza i termini usati nel post. Modificata da Long 2011

Le Cronache di Placodermata (CdP). Episodio 1: la doppia faccia dei placodermi

Con questo post inizio finalmente la serie sui placodermi, come avevo promesso ormai oltre due mesi fa (scusate). Sarà un viaggio lungo attraverso un intricato mondo di termini anatomici, dettagli morfologici, bellissimi fossili tridimensionali, piastre isolate, enormi predatori e piccole forme detritivore. Sarà un viaggio anche nella confusione sistematica, nei miraggi filogenetici e nelle dispute scientifiche.
Insomma, avremo di che discutere nei prossimi mesi.
Visto che l’argomento è ampissimo e non facile, ho deciso di partire piano, dedicando i primi post all’anatomia dei placodermi e alla terminologia necessaria, passando poi all’analisi dei vari gruppi, della loro anatomia, ecologia e filogenesi. E chissà, alla fine di questa estenuante fatica, magari avremo tutti quanti imparato di più a proposito di questo groviglio paleontologico, me compreso. Partiamo.

Nel mondo della divulgazione paleontologica, i placodermi godono di una certa popolarità e sono sovente presenti nei musei, nei libri e nei documentari. Questo è dovuto soprattutto all fatto che molti essi possiedono caratteristiche molto amate dal grande pubblico, come dimensioni importanti, mascelle da predatore, rivestimento corazzato e faccia cattiva. La star, l’avrete già capito, corrisponde senza dubbio al nome di Dunkleosteus, un animale che avrete sicuramente visto da qualche parte prima d’ora. Ma il mondo dei placodermi non è solo muscoli e aggressività, come ci viene spesso detto, ma nasconde numerose sfaccettature, alcune anche assolutamente inaspettate.
Ma cosa sono i placodermi? Quando e dove vissero? Perché sono così famosi?

Lyrarapax, il cervello degli anomalocaridi e l'evoluzione degli artropodi

Nonostante siano molto conosciuti sia dal punto di vista dei resti fossili che in generale della loro anatomia e ecologia, gli anomalocaridi rimangono un gruppo ancora oscuro dal punto di vista filogenetico. I loro tratti particolari, come le appendici trasformati in pinze di diversa forma e funzione (come abbiamo visto qui), il loro apparato buccale circolare, unite ad alcune loro caratteristiche simili a quelle di altri invertebrati, come ad esempio il possesso di occhi composti da un gran numero di elementi, rende questi animali difficili da collocare sull’albero evolutivo degli invertebrati (il rischio di omoplasie, per questi taxa così “mixati”, è piuttosto alto).
Negli ultimi anni esso sono risultati a volte (Haug et al., 2013) all'interno di Euarthropoda (insetti, millepiedi, chelicerati, crostacei), in particolare vicino a Chelicerata (ragni, scorpioni, limuli); altre volte (Daley et al., 2009) sono risultati esterni ad Euarthropoda , altre volte ancora sono risultati addirittura non imparentati con gli artropodi ma rappresentanti una linea isolata di ecdisozoi preistorici (Hou and Bergstrom, 2006).
In particolare, ciò che da sempre ha reso difficile un paragone tra gli anomalocaridi e gli altri artropodi era la morfologia e la posizione delle loro appendici frontali. 
In soldoni, la domanda era: queste appendici sono omologhe a qualche appendice di altri artropodi noti, sono un carattere esclusivo degli anomalocaridi o sono il risultato di convergenza con altri artropodi? Il caso ricorda un po’ il classico esempio che si usa per parlare di analogia e omologia, evidenziando le differenze e similitudini tra pinne dei pesci, dei cetacei e l’arto dei tetrapodi.
In questo caso specifico, scoprire che le particolari appendici degli anomalocaridi sono evolutivamente omologhe a qualche tratto già esistente negli artropodi noti sarebbe cruciale per poter meglio risolvere la loro posizione filogenetica.
Lo studio della filogenesi attraverso i fossili si basa essenzialmente sulla comparazione delle strutture anatomiche. E’ chiaro quindi che piò informazioni si hanno a disposizione, più si conosce l’anatomia di un animale, più si può inquadrarlo in un contesto evolutivo.
Abbiamo visto in alcuni post (qui ad esempio), come recentemente, grazie a metodologie nuove e tecniche all’avanguardia, è possibile raccogliere informazioni anche di aspetti degli animali fossili fino a poco tempo fa inaccessibili, come i tessuti molli.
Lo studio dei tessuti molli degli anomalocaridi, in particolare del cervello e dei nervi, è l’argomento del recentissimo articolo pubblicato su Nature da Cong et al. (2014). Esso ci svela nuovi dettagli dell’anatomia interna di questi animali e soprattutto fornisce una chiara e precisa collocazione filogenetica degli anomalocaridi, grazie appunto a questi nuovi dati. 

Rcostruzione (sinistra) e foto (destra) di un esemplare (YKLP13305) di Lyrarapax. Da Cong et al., 2014

Megamastax amblyodus, un nuovo gnathostomo siluriano. Parte 3: il clima del Siluriano e lo studio multidisciplinare

Fino a poco tempo fa si pensava che la mancanza di vertebrati acquatici di grandi dimensioni prima del Devoniano fosse correlata con le condizioni fisico-chimiche degli oceani, in particolare con la presenza di bassi livelli di ossigeno, che avrebbero costituito un forte fattore limitante per lo sviluppo dimensionale dei vertebrati.
Negli ultimi anni, complice anche la (giusta e sottovalutata) necessità di capire meglio il clima e l’atmosfera del passato, sono stati effettuati numerosi studi per risalire alla composizione atmosferica, al clima e alle condizioni abiotiche della Terra durante la sua storia evolutiva.
Alcuni modelli basati soprattutto sull’analisi di elementi chimici come il molibdeno e correlati con il record fossile (Bergman et al., 2004; Dahl and Hammerlund, 2011), indicano un aumento della concentrazione di ossigeno negli oceani intorno alla metà del Paleozoico Secondo questi modelli, prima dell’Emsiano (Devoniano inferiore, circa 400 milioni di anni fa) i livelli di ossigeno degli oceani corrispondeva a circa 10-15% dei livelli attuali, con un aumento fino ad arrivare a livelli corrispondenti al 40% di quelli attuali a circa 400 milioni di anni fa.
A questo si pensava fossero collegati i fenomeni della radiazione delle piante terrestri vascolari e l’aumento della biodiversità acquatica a vertebrati, soprattutto per quanto riguarda dimensioni e nicchie trofiche (ad esempi i grandi placodermi e osteitti del Devoniano), favoriti dall’aumento dell’ossigeno (Dahl et al., 2010)
E’ stato osservato infatti come i vertebrati marini predatori attuali siano particolarmente legati ai livelli di ossigeno per quanto riguarda le dimensioni (alto metabolismo dovuto all’attività predatorie e alle dimensioni), con le forme più grandi che consumano più ossigeno di quelle piccole, e che quindi tollerano meno l’ipossia. Inoltre, i “pesci” si dimostrano meno tolleranti riguardo alla scarsità di ossigeno rispetto agli altri animali (Gray et al., 2002)
L’idea dunque è che un basso livello di ossigeno nel Siluriano abbia limitato lo sviluppo di vertebrati di grande dimensioni.
La scoperta di Megamastax, però, ribalta lo scenario.

Megamastax amblyodus, un nuovo gnathostomo siluriano. Parte 2: il più grande predatore dell'epoca

Nello scorso post vi avevo introdotto Megamastax amblyodus, un nuovo sarcopterygio del Siluriano Medio, recentemente scoperto e descritto da Choo et al. (2014). Ne avevo viste le caratteristiche morfologiche e discusso della sua possibile posizione filogenetica.
Oltre ad essere interessante per le sue peculiarità anatomiche, Megamastax è però importante poiché ci fornisce anche molte informazioni per quanto riguarda la paleocologia e la biodiversità di un periodo così poco noto come il Siluriano.
Fino ad ora, vertebrati di lunghezza superiore al metro erano conosciuti solo a partire dal Devoniano, dove troviamo anche forme di notevoli dimensioni, come i placodermi Dunkleosteus e Titanichthys (fino a 10 metri di lunghezza), il sarcopterygio Onychodus (2-4 metri di lunghezza) o il condritto Cladoselache ( 1,5 – 2 metri di lunghezza). Non per niente il Devoniano è chiamato “l’età dei pesci”.
Nel Siluriano, i più grandi vertebrati noti erano rappresentati invece da forme piuttosto piccole se comparate con quelle del Devoniano. Con una media che si aggira sui 20 centimetri, i più grandi taxa sono rappresentati dall’osteitto Guyu e dal placoderma Silurolepis, entrambi lunghi all’incirca 35 centimetri.
Le dimensioni delle mascelle di Megamastax ci consentono di ipotizzare le sue dimensioni complessive, che possono essere stimate comparando appunto le misure delle sue mascelle con quelle delle mascelle di altri sarcopterygii fossili ad esso simili.
La fusione degli elementi ossei che compongono la mascella ci dicono che i due esemplari sono entrambi di età o vicini comunque alla fase adulto, e dunque dobbiamo confrontare le proporzioni tra mascelle e resto del corpo in altri sarcopterygii adulti (durante l’ontologenesi, le proporzioni tra le varie parti del corpo può essere anche molto diversa).
Una delle due mandibole, che misura 12,9 centimetri, è completa in tutte le sue parti e consente di stimare la lunghezza complessiva dell’altra mandibola, incompleta e lunga 10,9 centimetri, che dunque doveva avere una lunghezza di circa 17,5 centimetri.
Confrontando queste lunghezze con quelle di altri osteitti del Siluriano (Guyu) e del Devoniano (Miguashaia, Gogosardinia, Strunius e Howqualepis), Choo et al. stimano una lunghezza per Megamastax compresa tra i 64 e i 90 centimetri per l’esemplare più piccolo e tra 86 e 121 centimetri per quello più grande. Ciò fa di Megamastax il più grande vertebrato siluriano, nonché il primo a superare il mezzo metro di lunghezza.

Paragone tra Guyu (alto a sinistra) e i due esemplari di Megamastax. Da Choo et al., 2014
Cosa comporta una così grande disparità dimensionale tra Megamastax e gli altri vertebrati Siluriani?

Megamastax amblyodus, un nuovo gnathostomo siluriano. Parte 1: morfologia di un protagonista

Se il Cambriano è famoso per essere il periodo in cui la vita è “esplosa”, gettando le base per l’attuale biodiversità sul pianeta, e il Devoniano è il tempo della leggendaria “era dei pesci”, i due periodi (Ordoviciano e Siluriano)  in mezzo a queste due celebrità sono invece tristemente poco conosciuti.
Se proprio vogliamo, per qualcuno l’Ordoviciano dovrebbe essere noto poiché teatro di un significativo episodio di estinzione di massa, di cui pero' non si ricorda mai nessuno, oscurato dall'estinzione di fine Mesozoico o di fine Permiano.
Riguardo al Siluriamo, bè, ditemi se riuscite a trovare qualche testo, articolo o documentario che ne parli in maniera sufficientemente approfondita, o per lo meno comparabile a quanto viene fatto con gli altri periodi.
Cos’è successo nel Siluriano? Booohh, chi lo sa!?
Eppure, questo è stato un periodo fondamentale per la storia del nostro pianeta, un periodo in cui le piante pioniere hanno cominciato a diffondersi in maniera significativa sulla terraferma, in cui i mari si sono ripopolati dopo l’estinzione ordoviciana, in cui i pesci, ben prima del Devoniano, hanno cominciato a esplorare nicchie ecologiche differenti, evolvendosi in numerose forme dalle più disparate anatomie (ne abbiamo viste alcune quando abbiamo parlato dei vari gruppi di agnati, vedere indice del blog).
Per quanto riguarda i “pesci”, probabilmente sfugge a molti che già nel Siluriano era presenti diversi gruppi di vertebrati con mascelle, tra cui placodermi, attinopterigi e sarcopterygi (i nostri parenti a pinne lobate, dunque, erano già in campo), nonché numerose forme di agnati.
Il Siluriano, dunque, rappresenta un importante momento della storia del nostro pianeta e i giacimenti di questo periodo, sparsi per il mondo anche se non estremamente frequenti, nascono numerosi tesori. Molti ancora da svelti, alcuni già trovati, poco apprezzati, ma di vitale importanza.
Uno di questi tesori è stato recentemente descritto sulla rivista Scientific Reports da Choo et al. (2014) e ad esso ho deciso di dedicare i prossimi posts. Ho diviso la trattazione in tre diverse parti visto che la scoperta di questo taxon ci consente di parlare sia dell’animale in se, sia di alcuni aspetti della biodiversità ed ecologia dei vertebrati siluriani, sia in generale dell’ambiente e del clima del Siluriano.
Choo et al. descrivono i resti parziali di un nuovo vertebrato proveniente dal Siluriano superiore (Ludfordiano, circa 423 milioni di anni fa) della Cina sudoccidentale. All’animale è stato dato il nome di Megamastax ablyodus, che dal greco significa “grande bocca con denti smussati”, in riferimento alle sue dimensioni e alla sua dentatura, di cui parlerò fra poco.

Olotipo di Megamastax amblyodus (IVPP V18499.1).Mandibola in visione laterale, linguale e dorsale. Immagine da Choo et al., 2014

Metaspriggina e la primitivà degli gnathostomi

Le forme di vita del Cambriano sono sicuramente uno degli argomenti di maggior fascino dal punto di vista paleontologico. Sia perché esse ci appaiono così strane rispetto a quelle presenti oggi, sia perché appartengono ad un tempo estremamente lontano, quando la terraferma era disabitata e  lo status chimico-fisico-ecologico del nostro pianeta era ben diverso da quello attuale.
Ma uno dei fattori che aumenta il grado di interesse e di fascino intorno a questo periodo della storia della Terra è sicuramente legato al fatto che di esso sappiamo ancora poco, spesso troppo poco.
Questo discorso ben si applica alle forme di vita cambriane che fanno parte del gruppo dei cordati, clade a cui anche noi apparteniamo insieme anche a tutti gli altri vertebrati, estinti e non (di cui ho parlato qui). Conoscere dunque i primi cordati e la loro evoluzione rappresenta un punto fondamentale per lo studio non solo dell’evoluzione della vita ma anche della storia della nostra specie.
Purtroppo, come spesso accade quando si parla di record fossile, la nostra conoscenza delle prime fasi della storia dei cordati e dei vertebrati è ancora nebbiosa e incerta, a causa dei pochi siti cambriani in cui sono stati trovati fossili di cordati, animali dal corpo molle che, appunto, non si fossilizzano con facilità.
Per nostra fortuna però, i pochi posti da cui sono noti resti di cordati cambriani presentano condizioni di conservazione straordinarie. Sto parlando dei due incredibili Lagerstatten di Burgess Shale e Chengjiang, di cui ho parlato già approfonditamente diverse volte. In essi non solo si sono conservati alcuni taxa di cordati cambriani, ma essi presentato uno stato di fossilizzazione tale che è spesso possibile analizzare con estremo dettaglio la loro morfologia.
Ed è proprio analizzando alcuni fossili di cordati provenienti da questi siti che un nuovo recente articolo, pubblicato su Nature da Conway Morris e Caron (2014), ha evidenziato l’importanza dello studio di queste forme nella nostra comprensione dell’evoluzione dei vertebrati, persino di alcune caratteristiche, come l’origine delle mascelle, che sembrano poco evidenti in animali agnati e senza scheletro.

Coming soon: cronache di placodermata

C'è ancora un gruppo di stem gnathostomi di cui non ho mai (o quasi mai) parlato.
Un gruppo molto famoso, con alcuni dei suoi rappresentati molto noti al grande pubblico e presenti in numerosi musei e documentari.
Un gruppo in cui si trovano alcuni tra i più grandi vertebrati acquatici del paleozoico, e alcuni dei più piccoli, nonchè sicuramente molti dei più strani.
Un gruppo che possiede il mitico nome di "pesci corazzati".
Un gruppo che, al di là della celebrità popolare, è da anni il vero incubo di chi studia le relazioni interne agli stem gnathostomi, per la sua enorme diversità e presenta di forma dai più disparati adattamenti anatomici (e mix di caratteri).
Un gruppo che probabilmente non lo è.

Prepariamoci, perchè su PaleoStories stiamo per entrare in quell'intricata matassa che è l'anatomia e l'evoluzione dei placodermi.
Presto, su questi schermi.

Paleonews: il sesto senso dei vertebrati acquatici e il rostro dei pliosauri

L’impegnatissimo mese di maggio volge al termine. Dopo mille impegni, si è concluso con il Woodward Symposium, di cui vi avevo parlato, e un bel viaggio di tre giorni nel Lake District, area montuosa del nord dell’Inghilterra dal paesaggio affascinante, fatto di valli glaciali, laghi e fiumi, che si intrecciano tra rocce dal lontano passato geologico (le più antiche risalgono a circa 500 milioni di anni fa).
Ora posso finalmente tornare a scrivere, spero, al blog in maniera assidua.

Oggi voglio riprendere con un nuovo studio, fresco fresco, che si riallaccia a ciò di cui avevo parlato qualche settimana fa, ossia allo studio dei fossili e della loro anatomia interna attraverso nuovi mezzi tecnologici come le scansioni ai raggi X e i programmi di ricostruzione 3D.
Esso riguarda il sistema neurovascolare del rostro (parte anteriore del cranio, di norma dagli occhi fino alla fine del muso, compresa la mascella) di un pliosauro del giurassico superiore (Kimmeridgiano, circa 170 milioni di anni fa) inglese.
Lo studio è stato presentato da Foffa et al. sulla rivista Naturwissenschaften il 23 di questo mese.
I pliosauri sono un gruppo di rettili molto ben adattati alla vita acquatica, caratterizzato da pinne modificate a forma di pagaia, quelle posteriori più sviluppate delle anteriori, una coda corda, un collo relativamente corto e un cranio massiccio con una dentatura ben sviluppata. Essi vissero da circa il Giurassico inferiore fino alla fine del Mesozoico. Dal punto di vista filogentico, i pliosauri rientrano del clade Lepidosaurmorpha (insieme dunque a lucertole, camaleonti, serpenti, etc..) e fanno parte del plesiosauri insieme ai plesiosauroidi (i plesiosauri sensu strictu), da cui si distinguono principalmente per il collo più corto e un cranio più robusto e largo.
Benché siano un gruppo ben studiato dal punto di vista della morfologia esterna, anche “grazie” alla presenza di alcuni taxa di notevoli dimensioni (alcuni, come Kronosaurus, potevano raggiungere i 10 metri di lunghezza) che hanno reso questi animali famosi anche al grande pubblico, alcuni aspetti dell' ecologia e del comportamento dei pliosauri sono ancora oscuri. Uno dei maggiori interrogativi riguarda senza dubbio le modalità di localizzazione delle prede che questi efficienti predatori marini potevano utilizzare.

Scheletro di Kronosaurus. Da www.oceansofkansas.com

Piccolo Atlante di Anatomia di Gnathostomata: i nervi cranici

Dopo un’assenza forzata di due settimane (scusate ma ho avuto degli impegni che mi hanno costretto a mettere il blog in secondo piano) riprende la nostra rubrica del Piccolo Atlante di Anatomia di Gnathostomata.
Oggi andremo ad analizzare una parte anatomica di cui si sente parlare poco nel mondo paleontologico, ma che in alcuni casi può risultare importante nello studio dell’evoluzione e delle relazioni filogenetiche di alcuni gruppi, come ad esempio gli stem gnatostomi.
Il post di oggi è dedicato ai nervi cranici, una parte del sistema nervoso periferico strettamente legata al cervello e alla trasmissione degli stimoli verso le varie parti del corpo, così come la ricezione di messaggi da parte di quest’ultimo. 

Per prima cosa, è bene capire come è possibile studiare i nervi cranici in animali estinti.
Essi infatti, essendo tessuti molli, sono molto sensibili al processo di decomposizione e la loro preservazione allo stato fossile e al limite dell'imposibile. 
Tuttavia, durante il loro corso essi passano attraverso le ossa del cranio lasciando dei canali nelle ossa e/o uscendo da esso lasciando delle cavità (foramina).
Grazie a questo, avendo a disposizione dei crani conservati in tre dimensioni con ottime condizioni di fossilizzazione e utilizzando le tecniche che abbiamo visto nel post dedicato allo studio paleoneurologico, oggi è possibile analizzare la posizione e il passaggio dei nervi all’interno del neurocranio di diversi vertebrati fossili, stem gnatostomi compresi.
Esistono poi della area del cranio, come la cavità oculare e otica, che possono essere usate come guida per individuare alcuni nervi cranici.
Ad esempio, il nervo ottico (II), oculomotore (III) e trocleare (IV) passano attraverso l’orbita lasciando delle cavità. Nell’orecchio, il nervo acustico (VIII) entra nella cavità del labirinto, con i nervi trigemino (V), adbucente (VI) e facciale (VII) che passano davanti ad esso, e i nervi glossofaringeo (IX) e vago (X) passano sotto o dietro ad esso. Individuando quindi nel fossile queste aree del neurocranio, se esso ben conservato, è possibile riuscire a ricavare la posizione (e se si è molto fortunati il loro corso) di vari nervi cranici.

Regione optica del neurocranio di Cobelodus con in evidenza alcuni dei nervi cranici associati all'orbita (Modificata da Maisey 2007)

Bisogna però fare attenzione: lo studio dei nervi cranici nei vari gruppi di animali può essere preso come esempio di come a volte non è possibile utilizzare l’anatomia comparata in maniera indiscriminata per ricostruire l’anatomia interna degli animali del passato.
Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, il cervello mantiene una sua morfologia più o meno costante, con le cinque divisioni sempre nello stesso ordine, in tutti i vertebrati, dalle missine all’uomo, i nervi cranici invece differiscono in posizione e numero a seconda dei vari gruppi.
Una prima importante distinzione risiede nel numero di nervi cranici: gli amnioti, uomo compreso, ne presentano ben tredici, mentre tutti i vertebrati non tetrapodi e gli anfibi ne possiedono undici.
Negli amnioti infatti sono presi due paia di nervi addizionali, il nervo IX (nervo accessorio) e il nervo XII (nervo ipoglosso), originati dai primi due paia di nervi spinali.
Mi è capitato recentemente di parlare di nervi cranici con un medico e non riuscire bene a comprenderci date le notevoli differenze tra il sistema nervoso delle lamprede e quello dell’uomo.
Altre importanti differenze risiedono nel percorso di alcuni nervi cranici, ad esempio se un particolare nervo esce nella parte anteriore o posteriore dell’orbita. Queste differenze, seppur possano sembrare marginali, a volte sono fondamentali dal punto di vista anatomico e filogenetico.
In questo post ci concentreremo sui nervi cranici dei vertebrati non amnioti e vedremo alcuni esempi di come possiamo utilizzare i dati forniti dal loro studio per affinare le nostre conoscienze delle prime fasi dell'evoluzione dei vertebrati.

Paleoneurologia: tra vecchie tradizioni e nuove realtà

Da un po’ di post stiamo parlando dell’anatomia interna dei fossili e di come lo studio di questa può aiutarci a ricavare preziose informazioni importanti riguardo l’ecologia, la filogenesi e l’evoluzione di alcuni gruppi. Abbiamo parlato dell’evoluzione del cervello, della morfologia degli archi branchiali, di nervi e muscoli.
Spero però che, leggendo queste cose, vi sia venuta in mente una domanda semplice quanto necessaria: ma com’è possibile sapere com’era fatto il cervello o l’arco branchiale di un animale che conosciamo solo come resto fossile? 
I tessuti molli, come il cervello, non dovrebbero essere molto rari da trovare fossilizzati?
Infatti è così, in quanto tessuto non mineralizzato, il cervello, così come i nervi, i vasi sanguigni, i muscoli, non si fossilizzano facilmente, tale che è quasi impossibile avere informazioni dirette della loro morfologia.
Tuttavia, vi sono altre strutture che possono essere utilizzate per studiare questi tessuti, e ciò riguarda le cavità, i canali, le cicatrici, che questi lasciano sulle ossa o al loro interno, come le cavità lasciate dal corso dei nervi all’interno dell’endocranio che, in vari casi, è ossificato e quindi si fossilizza.
In questo modo, osservando le tracce lasciate da questi tessuti all’interno delle ossa, è possibile ottenere un’idea riguardo la loro morfologia.
A questo punto però, possiamo porci un’altra domanda, più tecnica: ma come si studia “il dentro” di un fossile? Quali tecniche e in quali casi è possibile?
In questo post vedremo una breve panoramica delle tecniche utilizzate nello studio dell’anatomia interna dei fossili, in particolare della zona cranica, dei loro vantaggi e svantaggi, e di come queste siano cambiate nel tempo.

Ozarcus e la morte dei fossili viventi.

Nel blog ho parlato spesso di come la nostra visione dell’evoluzione della vita sulla Terra sia distorta dalla nostra tendenza a considerare troppo le poche cose che oggi vediamo intorno a noi, ossia gli esseri attualmente viventi, e troppo poco le infinite forme di vita che non ci sono più (es. qui). Lo studio dell’evoluzione dovrebbe invece cercare di tirar fuori il massimo dalle informazioni che, per nostra grande fortuna, a volte possiamo ricavare dall’osservazione dei resti degli esseri viventi del passato, attraverso i fossili. Questo perché, ricordiamolo sempre, l’evoluzione è legata a modificazioni che avvengono nel tempo.
Dalla mancanza di dati dal passato e spesso purtroppo anche da una lettura superficiale del presente, derivano alcune concezioni e pregiudizi erronei che come le specie invasive si protraggono velocemente e sono difficili da estirpare(es. qui). Uno di questi  riguarda la natura primitiva degli squali, oggigiorno accreditati come fossili viventi in relazione al loro essere poco cambiati rispetto a quello che dovrebbe essere la condizione primitiva, originaria, dei vertebrati (vedere qui).
A ben vedere, questa concezione è già per sé erronea anche senza scoprire alcun fossile. 
Essendo Chondrichthyes sister-group di Osteichthyes, nessuno dei due può essere più primitivo dell’altro in quanto si originano entrambi dallo stesso nodo. E’ però vero che a volte alcuni taxa (in questo caso, gruppi) possono conservare più caratteristiche presenti nell’antenato comune rispetto ad altri, ma non per questo il gruppo in se è primitivo, poiché ogni taxa ha delle sue caratteristiche specifiche, evolute, derivate, che lo rendono diverso da ogni altro.
Abbiamo visto in passato come la nostra concezione sulla primitività degli squali sia stata notevolmente messa in discussione da record fossile, che ha mostrato come, ad esempio, essi possiedano uno scheletro cartilagineo non perché retaggio della condizione primitiva degli gnathostomi ma come modificazione secondaria e specifica (in pratica essi hanno perso tessuto osseo da un antenato con scheletro osseo). Numerosi fossili hanno evidenziato come, dal punto di vista del materiale che compone lo scheletro, sono i pesci ossei (e anche noi, quindi) ad aver mantenuto la condizione iniziale presente nell’antenato comune di crown Gnathostomata, e non i condritti, che invece ne hanno sviluppata una loro.
Un ulteriore colpo al mito della primitività dei condritti è stato dato pochi giorni fa dalla descrizione di Ozarcus mapesae, un nuovo stem condritto proveniente dal Carbonifero Inferiore dell’Arkansas (U.S.A.), pubblicata su Nature da Alan Pradel e colleghi (2014).  
Gli esemplari noti consistono in quattro resti cranici, in particolare per quanto riguarda il neurocranio e gli archi branchiali. Essi sono stati studiati tramite tomografie computerizzate (CT scan) in modo da ricostruirne in dettaglio l'anatomia interna.

Ozarcus mapesae. Foto dell'olotipo AMNH FF 20544 (alto sinistra), e ricostruzione 3D dopo scansione digitale del fossile (alto destra), del neurocranio con archi (basso sinistra) e dei soli archi branchiali (basso destra). Da Pradel et al., 2014

Tamisiocaris, un nuovo anomalocaride filtratore (Parte 2)

La scoperta di Tamisiocaris (vedere qui) ci ha fornito un altro pezzo del meraviglioso puzzle dell’evoluzione della vita sulla terra.
Con le sue appendici specializzate e le grandi dimensioni, la scoperta ha fatto il giro del mondo, diffondendo la notizia di questo “whale-like” anomalocaride e rispolverando l’intramontabile mania per l’esplosione cambriana.
Tuttavia, nonostante la morfologia di questo animale sia stata al centro delle attenzioni dei media per le sue curiose peculiarità, poco è stato detto dell’importanza della sua scoperta per quanto riguarda la nostra conoscenza dell’ecologia e in generale della biodiversità del cambriano.
A ben vedere, quello che dovrebbe davvero importare dell’esplosione cambriana non sono tanto i piccoli pezzi del puzzle ma piuttosto il disegno che viene fuori mettendo insieme i vari pezzi.

Inserendo Tamisiocaris all’interno della biodiversità anomalocaride, risulta subito evidente come questo gruppo di animali possegga una interessante varietà morfologica per quanto riguarda le appendici, legata ad un diverso utilizzo delle risorse alimentari e dunque all’occupazione di diverse nicchie ecologiche. 

Piccolo Atlante di Anatomia Gnathostomata: il cervello dei vertebrati, panoramica ed evoluzione

Il cervello è una delle strutture più complesse e affascinanti dell’anatomia degli animali. Da esso dipendono la maggior parte delle azioni svolte sia per quanto riguarda i meccanismi fisiologici che il comportamento.
L’anatomia del cervello e del sistema nervoso dei vertebrati viventi è ben conosciuta sia nella sua morfologia generale sia nel funzionamento dei diversi elementi di questo incredibile sistema.
Tuttavia, nonostante la nostra conoscenza sull’anatomia di questa parte del corpo sia in continua crescita, sappiamo ancora poco riguardo la sua evoluzione nella storia dei vertebrati, in particolare quali cambiamenti sono occorsi e quando, e come lo studio del sistema nervoso dei può aiutarci nel ricostruire non solo la storia del cervello ma anche le relazioni filogenetiche tra i vertebrati fossili e viventi.
Questa è l'idea di fondo di questo post, in cui cercherò brevemente di descrivere le varie parti del cervello e a cosa servono, concentrandomi sulle aree su cui è possibile dire qualcosa riguardo quello che sappiamo della loro natura nelle forme fossili.

Nonostante il sistema nervoso dei vertebrati sia frutto dell’unione di diversi elementi, come ad esempio nervi cranici, organi sensoriali, ghiandole, vasi sanguigni, numerosi studi hanno dimostrato come la sua struttura generale sia abbastanza conservativa e cambi abbastanza lentamente, in modo tale che in tutti i vertebrati possiamo distinguere le varie parti con relativa facilità, giacché la loro posizione non cambia in modo radicale (es. Northcutt 2002; Saveliev 2008). Per esempio, le divisioni del cervello, pur con dimensioni diverse, si trovano nella stessa sequenza praticamente in tutti i vertebrati.

Il cervello dei vertebrati è diviso in cinque regioni principali, ognuna specializzata in una o più funzioni diverse. Troviamo, in ordine, il telencefalo, il diencefalo, il mesencefalo, il metencefalo e il mielencefalo.

Visione dorsale del cervello di un condritto. Modificato da Janvier, 1996

Tamisiocaris, un nuovo anomalocaride filtratore (Parte 1)

Se c’è un periodo della storia della vita sulla Terra che mi affascina più di ogni altra cosa, questo è il Cambriano. In questo periodo la vita si riprese dopo una terribile glaciazione, correlata a una delle più grandi (e dimenticate) estinzioni di massa della storia, e vide l’apparizione d’innumerevoli forme nuove, frutto d’innovazioni anatomiche e interazioni ecologiche.
E’ qui che troviamo alcuni degli animali più strani e meravigliosi che siano mai esistiti, guardando i quali, nonostante la mia ammirazione per essi, anche il più strano dei dinosauri o il più misterioso degli stem gnathostomi risulta in qualche modo normale.
Uno studio recentemente pubblicato da Vinther et al. (2014) presenta un ulteriore interprete di quell’esaltante atto della storia della vita sulla terra che fu il Cambriano. 
L’attore in questo caso è un anomalocaride.

Gli anomalocaridi rappresentano un gruppo di artropodi caratterizzati da appendici segmentate molto sviluppate poste di fronte alla bocca, utilizzate nella maggior parte dei casi per afferrare le prede; da una bocca di forma pseudo-circolare munita di una serie di dentelli appuntiti, per processare il cibo; da una serie di appendici laterali flessibili, utilizzate per nuotare; e da altre caratteristiche tipiche da artropode come occhi composti e un corpo segmentato ricoperto da chitina.

Anomalocaris, ricostruzione e fossile delle appendici raptatorie.
Il più famoso è sicuramente Anomalocaris, rinvenuto in Cina, Canada, Groenlandia e Utah, protagonista di numerosi documentari.
Gli anomalocaridi vengono spesso rappresentati come i top-predator del Cambriano, viste le loro dimensioni (fino a 1-2 metri di lunghezza) e i loro adattamenti predatori, come le appendici raptatorie e il loro apparato buccale triturante.
Tutto ciò sembra corretto dato il ritrovamento di fossili di trilobiti e altri invertebrati cambriani con segni di morso simili a quelli che la bocca di uno di questi animali poteva lasciare.

Dettaglio dell'apparato buccale di un anomalocaride
Dal punto di vista ecologico, gli anomalocaridi costituivano dunque quello che oggi sono gli squali o i cetacei, veloci predatori di grandi dimensioni. Tuttavia, oggi possiamo vedere come in questi due gruppi, così distanti dal punto di vista filogenetico ma con i medesimi bisogni fisio-ecologici, si sono evolute diverse strategie di sostentamento. In entrambi i gruppo infatti sono presenti adattamente che riguardano non solo la predazione di macrofauna, ma anche la possibilità di utilizzare uno dei cibi più abbondanti nell’ambiente acquatico, il plankton. In questo senso sono famose le mante o lo squalo balena, per i condritti, o le balene e il loro estremo adattamento al filtraggio del krill.
Considerando che il Cambriano vide la formazione di una catena trofica complessa e lo sviluppo di innumerevoli forme di vita, micro e macroscopiche, è’ possibile che anche tra gli anomalocaridi
si siano sviluppate diverse modalità di alimentazione, simili a quelli utilizzati dai moderni grandi animali acquatici, tra cui l'utilizzo del plankton come fonte di sostentamento?

Eutetraposelachus, il primo condritto con pinne lobate!

Quando ci sentiamo sicuri di qualcosa, confidiamo in ciò che sappiamo, che abbiamo appreso per esperienza, e perciò ci sentiamo consapevoli, ecco, è proprio in questi momenti che veniamo più colpiti da qualcosa che non ci aspettiamo, soprattutto se questa implica il dover distruggere parte della conoscenza che ci eravamo guadagnati con il sudore della fronte.
E questo è esattamente quanto successo con la pubblicazione di Eutetraposelachus da parte di Kwiecień et al. (2014). Una pubblicazione che ha dell’incredibile.
Il team di paleontologi capitanati dallo studioso polacco, infatti, ci presenta il resto, quasi completo, di uno stem condritto munito di caratteristiche mai osservate prima in un taxon di questo gruppo.
Il fossile proveniente dalla formazione di Balandis, nella parte sud ovest della Lituania, che è composta da strati risalenti al Devoniano inferiore, circa 405 milioni di anni fa.



Piccolo Atlante di Anatomia Gnathostomata: il neurocranio, origine e caratteristiche generali

Cominciamo ad addentrarci un po’ di più nell’anatomia scheletrica degli gnatostomi.
La maggior parte dei prossimi post saranno dedicati all’anatomia craniale, in particola del neurocranio e del sistema nervoso centrale.
Questo perché, nonostante gli gnatostomi, sia fossili sia viventi, siano piuttosto differenti per quanto riguarda la morfologia esterna, tutti possiedono un neurocranio con alcune caratteristiche simili, date dal fatto che questa parte dello scheletro interno è abbastanza conservativa, o comunque presenta delle aree specifiche che si trovano di solito nella stessa posizione e dunque possono essere facilmente comparate.
Recentemente sono stati pubblicati numerosi studi riguardanti l’anatomia craniale degli stem gnatostomi (es. Maisey 2007; Brazeau, 2009; Pradel, 2010; Gai et al., 2011; Davis et al. 2012; Dupret et al., 2014), grazie anche all’utilizzo di tecniche “nuove” come tomografie computerizzate, modelli 3d e programmi di grafica, che hanno fornito informazioni importantissime riguardanti le caratteristiche dell’anatomia interna degli gnatostomi fossili, caratteristiche che possono essere utilizzate per inferire non solo la morfologia dei taxa ma anche le relazioni tra essi.
Nei prossimi post dunque vedremo cos’è il neurocranio, come si forma, da che parti è composto e come e cosa cambia nei vari gruppi di vertebrati. In particolare, cercheremo di cogliere similitudini e differenze in modo da poter proporre ipotesi sulla condizione primitiva degli gnatostomi e sull’evoluzione della loro anatomia interna.

Posizione del neurocranio all'interno della testa di un tonno.

Il dizionario di Paleostories: sistematica di Gnathostomata

Siccome nel prossimo post cominceremo a parlare di stem condritti, crown osteitti, placodermi, e altri gruppi, ho bisogno che questi termini abbiano un significato anche ai lettori meno abituati alla sistematica.
Questo post dunque si prefigge l'obiettivo di dare una definizione chiara e concisa dei più importanti cladi che andremo a incontrare nei prossimi post dell'Atlante di Gnathostomata.
Nel mondo scientifico è importante utilizzare concetti e distinzioni che siano accessibili a tutti, più o meno oggettivi e frutto di un consenso generale. 
Qui adotterò una terminologia  che si basa essenzialmente sul concetto di total group, stem group e crown group, in particolare le definizioni pubblicate da Brazeau and Friedman (2014), nella loro recente review sulle caratteristiche di Gnathostomata.
Come abbiamo visto in precedenti post, l'utilizzo di questi termini è fondamentale perché aiuta a risolvere situazioni di ambiguità, quando, ad esempio, non si riesce a "piazzare" un taxon in uno o nell'altro gruppo specifico. Un esempio che avevamo visto riguardava Tiktaalik: avendo esso alcune caratteristiche sia dei tetrapodi che dei non tetrapodi possiamo inserirlo in Tetrapoda oppure no?
Considerando Tiktaalik come uno stem tetrapode possiamo risolvere il problema, per altro inquandrando questo taxon in un contesto evolutivo ben preciso. Essendo uno stem tetrapode, il fatto che possieda ancora caratteristiche non da tetrapode non è un grosso problema giacché possiede almeno alcune caratteristiche da tetrapode.

Il dizionario di Paleostories: Ectoderma, Mesoderma, Endoderma e lo sviluppo embrionale

Questo post de “Il Dizionario di Paleostories” è un ibrido tra il breve, classico, post di definizioni e un più lungo post di paleostories.
Oggi parliamo di tre termini che ho usato nell’ultimo post dell’atlante di anatomia gnathostomata, ectoderma, mesoderma e endoderma. Ma per farlo, appunto, farò il giro un po’ più largo, cominciando dall’inizio vero e proprio della formazione di un organismo.

Attenzione: il post è stato corretto grazie all'intervento del lettore "Michelangelo", che ringrazio. Se dunque qualcuno ha letto il post prima del 12/03/2014 potrebbe trovare delle differente. Questa è la versione aggionata dopo le correzioni.

La vita di quasi tutti gli animali presenti sulla terra (a parte gli asessuati) comincia con la fertilizzazione della cellula uovo (l’ovulo, il contributo femminile) da parte della cellula spermatica (contributo maschile).
Queste cellule, aploidi (ossia, che possiedono una copia del codice genetico di chi le produce) si uniscono portando alla formazione della prima cellula del nostro nuovo animale, lo zigote, una singola cellula diploide (ossia, che ha una copia del cromosoma della madre più una copia del cromosoma del padre).
Successivamente, lo zigote inizia a moltiplicarsi, senza differenziazione cellulare, fino al raggiungimento di circa 128 cellule. In questa fase è come se la “fabbrica zigote” si prepari, aumentando il numero dei suoi “operai”, per quella che sarà poi la fase operativa in cui le cellule verranno differenziate e separate in compartimenti per la produzione di specifici tessuti.

Una volta arrivato al numero necessario, lo zigote si trasforma in modo tale che si forma uno strato esterno di cellule (il blastoderma) che circonda uno spazio (blastocele), che può essere vuoto, rimepito dal tuorlo o da una soluzione salina, o assente. In questa fase lo zigote è detto blastula e il processo blastulazione.


A questo punto, alcune cellule dello strato esterno della blastula migrano all’interno del blastocele e si differenziano in diversi strati, uno più esterno, l’ectoderma, uno più interno, l’endoderma, e uno strato in mezzo, mesoderma, i protagonisti del nostro post. Questo processo si chiama gastrulazione e il risultato finale (cellula differenziata in strati) è detto gastrula.
Da notare che non tutti gli animali posseggono una gastrula con tre strati: le spugne posseggono infatti un solo strato, cnidari e ctenofori (meduse, polipi, idre) posseggono solo ectoderma e endoderma, mentre il medoserma è presente in tutti gli altri animali. Quando la gastrula possiede tutti e tre gli strati si dice che è tropiblastica, altrimenti diblastica se ne possiede solo due.


Piccolo Atlante di Anatomia Gnathostomata: Endoscheletro e Esoscheletro.

I vertebrati sono solitamente presentati come gli animali che possiedono uno scheletro interno, cartilagineo o di vero tessuto osseo.
Ciò è vero, poiché tutti i vertebrati, ciclostomi inclusi, possiedono del materiale più o meno rigido all’interno del corpo, con funzione di sostegno. Tuttavia questa è una caratteristica dei cordati e non solo dei vertebrati, perché anche l’anfiosso possiede una sorta di scheletro cartilagineo interno con funzione di sostegno, la notocorda.
Ciò che distingue invece i vertebrati dagli altri animali dotati di un sostegno interno è il possesso del cranio, di tessuto mineralizzato a protezione del cervello e degli organi di senso della regione cefalica.

Apparato scheletrico di missine (alto), lamprede (centro) e condritti (basso). In blu il tessuto cartilagineo, in verde la notocorda, in giallo il tipico tessuto fibroso che avvolge il cervello e la notocorda, tipico delle missine
E’ vero, se escludiamo le missine, gli altri vertebrati hanno uno scheletro con vertebre ben definite e una rigidità maggiore rispetto a quella dell’anfiosso, ma siccome le missine si sono dimostrate vertebrate a tutti gli effetti (vedi qui), ritengo sia giusto porre maggiormente l’attenzione sul cranio, che poi è la vera caratteristica che fa la differenza nello sviluppo dei vertebrati.
Lo scheletro (cranio + serie dorsale + cinti + scheletro appendicolare) è la parte più importante dei vertebrati per chi studi quelli fossili, visto che nella maggioranza dei casi è la sola cosa che rimane nel processo di fossilizzazione.
Siccome lo scopo di questa serie è aiutarci a capire come possiamo studiare l’evoluzione dei vertebrati e degli gnatostomi attraverso lo studio dei fossili, riconoscere le varie parti dello scheletro è a dir poco fondamentale.
Oggi però non voglio parlare delle singole parti che compongono lo scheletro, ma del materiale che rende questa struttura anatomica così particolare.

Il dizionario di Paleostories: Primitivo e Derivato

Il concetto di primitivo è forse uno dei più malinterpretati di tutta la sfera paleontologica.
Questo perchè, come al solito, si deve contestualizzare e definire bene di cosa si sta parlando.

Il termine primitivo si riferisce generalmente, o si dovrebbe, ad un carattere o ad una condizione morfologica, fisiologica, o comunque a una proprietà di un essere vivente, e non all'essere vivente in se (=nessun essere vivente è primitivo per definzione, alcune sue caratteristiche possono essere primitive)
Però, una proprietà va letta in scala evolutiva, e quindi essa può variare "in primitività" a seconda del contesto.
Ad esempio, il possesso di peli è una caratteristica primitiva per una balena, o per un cane, perchè deriva da un antenato comune mammaliano e non è una caratteristica distintiva di un cane o di una balena (ce li hanno entrambi). Però, il possesso di peli può anche essere un carattere derivato se consideriamo invece il gruppo dei mammiferi all'interno degli amnioti. Siccome il possesso di peli non è una caratteristica che i mammiferi hanno perchè derivata dagli amnioti, i peli sono una caratteristica derivata di Mammalia.
Riuscite a comprendere l'importanza della contestualizzazione sistematica? è davvero importante.

Un errore che viene spesso fatto è quello di dire che un taxa con alcuni caratteri primitivi è primitivo. Questo per esempio avviene sempre con gli squali o con i cyclostomi. I cyclostomi sono primitivi rispetto agli gnatostomi, perchè non hanno le mascelle, che è una caratterstica derivato.
Ma questo non è vero, o meglio, non c'entra niente. L'avere le mascelle è una caratteristica derivata di gnatostomata rispetto alla condizione ancestrale di vertebrata. I cyclostomi è vero che non hanno le mascelle perchè hanno tenuto la condizione primitiva per vertebrata, ma anche dei loro caratteri derivati che gli gnathostomi non hanno (ad esempio labbra con denti retrattili). E sopratutto, cyclostomata e gnathostomata sono sister group, dunque sono sullo stesso piano ed è quindi assolutamente scorretto definire un gruppo più primitivo dell'altro, giàcchè derivano da un medesimo nodo.
E questo vale per tutti i sister group. Dunque i condritti non sono più primitivi degli osteitti, le gimnosperme non sono più primitive delle angiosperme, i protostomi non sono più primitivi dei deuterostomi, etc.

Derivato significa che una caratteristica di un essere vivente è nuova rispetto alla condizione precedente del suo gruppo. Per esempio, la gelatina prodotta dalle missine è una caratteristica derivata rispetto alla condizione standard di vertebrata, così come il possesso del cervelletto è un carattere derivato degli gnathostomi rispetto alla condizione primitiva degli gnathostomi (e non ai cyclostomi, nonostante essi realmente non lo abbiano)

Spero di aver aperto un piccolo varco...

Piccolo Atlante di Anatomia di Gnathostomata: Cyclostomata vs Gnathostomata

Cos'è uno gnatostomo? Cosa non lo è? Come si distingue uno gnatostomo da un non gnatostomo?
Questa è, ovviamente, la domanda da cui partire per affrontare il nostro viaggio nelle profondità dell'anatomia e della storia evolutiva degli gnatostomi.
La risposta è complessissima, perché tra gli gnatostomi attuali e i loro parenti viventi più prossimi, i ciclostomi, c'è tutta una serie di forme, come abbiamo visto qui, di cui ancora non conosciamo a pieno posizione filogenetica, ecologia, morfologia, etc.
Dunque, dire qual è la condizione primitiva del primo gnatostomo rispetto ai ciclostomi, ossia nel punto di divergenza, è pressoché impossibile. Ma ci proveremo, analizzando il record fossile.

Per prima cosa però, proviamo ad analizzare i vertebrati attuali e vediamo cosa distingue gli gnatostomi di oggi (condritti e osteitti, compresi di tetrapodi) dai ciclostomi.

La prima evidente caratteristica è la presenza, negli gnatostomi, di un apparato buccale formato da mascelle e mandibole, che funzionano come una forbice sul piano verticale. I ciclostomi possiedono una bocca circolare senza alcuna divisione tra mascelle e mandibole. Dunque, tutti gli gnatostomi attuali possiedono una bocca. Essa può essere ridotta, modificata, ma mai assente. Possono essere assenti invece i denti, la cui conformazione è spesso diversissima a secondo del ruolo dell'animale all'interno della catena alimentare.

Differenze nella bocca e nel naso tra ciclostomi e gnatostomi. en=narici esterne. mo= bocca uj=mascelle superiori lj=mandibola
Altra caratteristica, magari meno evidente, è la presenza di sacche nasali pari.

Il dizionario di Paleostories: Crown Group e Stem Group

Lo so, l'argomento del dizionario di oggi è già stato trattato sul blog. Però, prima di poter scrivere il primo post dell'Atalante di Gnathostomata, ho bisogno davvero che alcuni concetti siano ben chiari.
E siccome parlerò di gnathostomi fossili, "placodermi","acantodi","agnati", etc, dunque, stem gnathostomi, è importante che il concetto di stem e crown group sia ben impresso e pieno del suo fondamentale significato.

Riprendo dunque le parole di un precedente post, in cui, se volete andare a rivedere (qui), c'è anche un aiuto iconografico.

Con crown group (gruppo corona, in italiano) si intende un clade delimitato da suoi membri ancora viventi e dal loro più antico antenato comune. Dunque, il gruppo corona comprende il più antico antenato comune di due linee ancora viventi e tutti i suoi discendenti, sia essi estinti o no. I punti importanti sono gli estremi del gruppo, che devono essere ancora vivi e vegeti.

Uno stem group (gruppo stelo, in italiano) comprende invece quei taxa che sono sì più vicini al gruppo corona che non ad altri taxa, ma che non hanno membri attualmente viventi (e quindi non possono essere inclusi nel gruppo corona). Da ciò deriva che un gruppo stelo, che ha comunque un certo legame di parentela con il suo gruppo corona, è parafiletico, giacchè appunto non comprende il gruppo corona e quindi solo parte dei discendenti di quell'antenato comune.

Attenzione a quest ultimo punto: uno stem group è ovviamente parafiletico, ma all'interno di un crown group vi possono essere dei sottogruppi, e alcuni di questi possono eventualmente essere monofiletici.
Per esempio stem Gnathostomata (ossia tutti i vertebrati più vicini agli odierni animali muniti di mascelle che non ai cyclostomi) contiene al suo interno il gruppo monofiletico degli heterostraci, dei galeaspidi, etc. Gruppi monofiletici che però, assieme, fanno parte di un gruppo che è parafiletico (stem gnathostomata) perchè non contiene tutte le forme, poichè esclude il gruppo corona.
Come al solito la contestualizzazione del termine è fondamentale.

Crown group più Stem group insieme sono inclusi nel Total Group, che è monofiletico includendo l'antenato comune e tutti i discendenti di una data linea filetica (ad esempio, tutti gli gnathostomi, fossili e non).

P.S. se fate fatica a capire (non preoccupatevi, può non essere così immediato), vi consiglio di collegarvi al post dotato di immagini.